Prima di criticare il Patto di stabilità, l'Italia deve chiedersi se vuole davvero ridurre il debito

Luciano Capone

Tutti criticano le nuove regole fiscali perché troppo dure, ma in realtà chiedono meno di ciò che l'Italia ha fatto negli anni Novanta. La sensazione è che, dopo l'ingresso nell'euro, per la classe dirigente italiana l'alto debito non sia più un problema 

Dopo l’accordo europeo sulle nuovo Patto di stabilità, in Italia c’è la convinzione diffusa – come in nessun altro paese europeo – che le nuove regole fiscali siano eccessivamente rigide e penalizzanti. Le recriminazioni sul nuovo quadro normativo, che costringerà l’Italia a una eccessiva e prolungata stagione di “austerità”, non provengono esclusivamente dai partiti di opposizione – che colpevolizzano il governo Meloni, come se con un esecutivo italiano di colore diverso la trattativa in Europa avesse potuto produrre un esito molto differente – ma anche dalla gran parte dei commentatori.

 

Il giudizio negativo è indirizzato specialmente alle “clausole di salvaguardia” pretese dalla Germania che costringono i paesi con un debito superiore al 90% del pil a tagliarlo di almeno 1 punto l’anno e i paesi con un deficit superiore al 3% a un aggiustamento fiscale di 0,5 punti l’anno, fino al raggiungimento di un margine di sicurezza dell’1,5% di deficit. Considerando i margini di flessibilità nella fase iniziale del Patto, tra cui l’esclusione della spesa per interessi, secondo le prime stime per l’Italia vuol dire un aggiustamento dello 0,25% circa su un periodo di sette anni che si traduce nel medio periodo in un avanzo primario del 4%. Troppa austerità, è il commento quasi unanime.

 

È possibile sia troppa, sicuramente non sarà una passeggiata. Ma non si è ben capito quale sarebbe l’alternativa per un paese ad alto debito come il nostro. Sempre che l’alto debito sia considerato un problema. Secondo la Nadef approvata dal governo Meloni prima dell’accordo sul nuovo Patto di stabilità (ma basato sulle linee guida della Commissione che andavano in quella direzione), l’Italia si è già impegnata per i prossimi anni in un aggiustamento del saldo strutturale ben superiore alle richieste del nuovo Patto. Ebbene, secondo le proiezioni della Commissione europea, nonostante questa prudente politica di bilancio l’Italia sarà l’unico paese ad alto debito che vedrà il suo debito pubblico crescere ulteriormente: dal 139,8% del pil del 2023 al 140,9% nel 2025. Tutto questo, mentre altri paesi cosiddetti periferici registreranno una consistente riduzione del debito: in Portogallo scenderà dal 103,4% del 2023 al 97,2% del 2025; in Grecia dal 160,9% del 2023 al 147,9% del 2025. Sia Atene sia Lisbona sono in avanzo primario già dal 2022 mentre Roma ci arriverà, forse, nel 2025. E quando allora l’avanzo primario italiano arriverà, forse, allo 0,3% in Grecia e in Portogallo sarà al terzo anno tra il 2 e il 3%.

 

Il 4% di avanzo primario nel medio termine è, quindi, per l’Italia un obiettivo auspicabile e possibile? Per rispondere alla domanda, bisognerebbe chiedersi prima se ci sono modi alternativi per ridurre il debito pubblico. Un modo è avere una fiammata di inflazione, com’è accaduto nel Dopoguerra e per certi versi nell’ultimo biennio: tralasciando il fatto che non è una cura dimagrante indolore, non è possibile per l’Italia restando nell’Eurozona dato che la Bce è impegnata a riportare l’inflazione al 2%. Un altro modo è una ristrutturazione del debito, ovvero un default, ma per molte ragioni non è auspicabile (ad esempio colpirebbe famiglie e banche italiane) e comunque costringerebbe a fare austerity.

 

Il percorso di un aggiustamento fiscale “ortodosso”, invece, è stato perseguito in moltissimi casi a partire dagli anni Ottanta da molti paesi europei. Qualche anno fa la Commissione europea, riprendendo anche studi di economisti italiani come il compianto Alberto Alesina, pubblicò un’analisi di quasi 30 episodi di riduzione del debito in economie avanzate (la gran parte dell’Ue) tra il 1985 e il 2016: in media questi paesi hanno ottenuto una riduzione del debito di circa 25 punti in un arco di 9 anni attraverso un avanzo primario del 3% del pil, con un livello più alto per i paesi che partivano da un debito più elevato.

 

Si tratta quindi di un percorso possibile e auspicabile, visto che questi paesi nello stesso periodo hanno avuto anche crescita economica, ma lo è anche per l’Italia? L’Italia è esattamente uno di questi casi: dal 1994 al 2004, in dieci anni, ha ridotto il debito pubblico di 17 punti (dal 117% al 100%) con un avanzo primario che è stato mediamente del 3,6%. Se si restringe il campo agli anni precedenti all’ingresso nell’euro, l’Italia è riuscita a mantenere tra il 1995 e il 2000 un avanzo primario medio del 5% con picchi superiori al 6%. È vero che in quel periodo l’economia cresceva a tassi superiori a quelli odierni, ma all’epoca la spesa per interessi partiva da oltre 10 punti di pil mentre ora è attorno ai 4 punti. Con l’ingresso nell’euro, proprio mentre la spesa per interessi crollava, il paese ha azzerato l’avanzo primario e interrotto il percorso di riduzione del debito arrivando in condizioni fragili all’appuntamento con la crisi finanziaria e dei debiti sovrani.

 

Prima della crisi Covid, quando il debito era 10 punti più basso di oggi, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco più volte indicò un avanzo primario al 4% come un obiettivo sfidante ma possibile per riportare il debito pubblico in dieci anni sotto la soglia del 100%. È esattamente ciò che fece l’Italia negli anni Novanta per entrare nella moneta unica. Il punto da chiarire, al netto del nuovo Patto di stabilità, è se per la classe dirigente italiana la riduzione del debito è ancora un obiettivo o ha smesso di esserlo dopo l’ingresso nell’euro.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali