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I conti con la realtà

Il flop di Tim è un gran monito contro lo statalismo di Meloni

Stefano Cingolani

Il mercato che punisce Telecom è lo stesso che sta bocciando i passi della rete unica. I silenzi  di Cdp e Mef. Un risiko di disastri

“Il mercato non ci ha capito”. E’ sorprendente sentire questa frase sulla bocca di un manager come Pietro Labriola il quale al mercato deve tutto e ha costruito il suo piano per convincere il mercato che la Tim senza rete, liberata dal gran fardello dei debiti arrivati a 26 miliardi di euro, può rimettersi bene in carreggiata. “Il mercato non ha capito” fa molto spirito dei tempi ed è tutto un cercare le manine oscure che hanno manovrato contro la nazione. In realtà il mercato ha capito, ma probabilmente non era ben informato. Il crollo è stato davvero eccezionale, non sarà facile assorbirlo. Ed è un colpo anche per il governo. Giorgia Meloni vigila, ma dice che “la questione è complessa”. Giancarlo Giorgetti grande sponsor del progetto fin dal governo Draghi si mette le mani nei capelli. La politica si era illusa e aveva illuso. Se torniamo indietro di un semestre vediamo che un’azione il 20 settembre si scambiava a 33 centesimi di euro, giovedì 6 marzo a 28 centesimi, ieri a 21.

La Tim vale in Borsa 4,5 miliardi di euro (meno della consociata brasiliana); ammettiamo che recuperi quel che ha perduto negli ultimi giorni, ebbene non arriverebbe a 5 miliardi, cioè meno dei 7,5 miliardi di debiti che graveranno sulle sue spalle anche dopo la vendita dell’infrastruttura a Kkr. Il bilancio 2023 ha chiuso in rosso per 1,44 miliardi. La nuova società dei servizi, dunque, si trascina una zavorra pesante e il dubbio è che possa produrre utili a sufficienza. Il piano Labriola sembra troppo ottimista: prevede +3 per cento l’anno grazie al comparto per le imprese che dovrebbe rendere l’8 per cento in più mentre l’anno scorso aveva fatto +6 per cento. Ma un ritorno al dividendo (quest’anno non ci sarà) sembra improbabile e il taglio dei costi viene ritenuto insufficiente. Circa 20 mila dipendenti andranno alla società dell’infrastruttura fissa e 18 mila restano nella società dei servizi. Wind ne ha settemila, più o meno come Vodafone Italia. Iliad meno di mille.

Il debito a 7,5 miliardi e quel 3 per cento annuo di utili sono le due cifre che hanno innescato la valanga di vendite, perché sono apparsi l’uno un peggioramento netto, l’altro un’irrealistica previsione rispetto al piano presentato nel novembre scorso. Quindi, se le cose stanno così, il mercato ha capito bene e non si è fidato. Tra novembre e marzo, ha  pensato, deve essere successo qualcosa che finora era stato tenuto nascosto. Ma secondo l’interpretazione di chi ha letto bene le carte, comprese le postille, non è cambiato proprio nulla. Allora Labriola aveva parlato di un debito pro forma, dopo la separazione, di 6,1 miliardi di euro nel 2023. Poi a piè di pagina veniva precisato che nel 2024, una volta compiuta la cesura, era previsto un indebitamento di 7,5 miliardi. Ebbene, la differenza percentuale tra le due cifre corrisponde sostanzialmente alla perdita subita dal titolo nel suo giovedì nero in Borsa. Ma come mai gli analisti non lo hanno notato? Forse la stessa Tim non è stata troppo a sottilizzare, giocando più o meno volontariamente su una incomprensione vantaggiosa? 

 Questa lettura degli eventi, cifre alla mano, non è fatta per assolvere, ma per capire. Resta aperta la questione di fondo: il piano Labriola è credibile? La Tim può reggere in un mercato sovraffollato e supersaturo, dal quale esce persino la Vodafone ritenendo che lo spazio residuo sia ormai occupato dalle società low cost e alle altre non resti che crescere per linee esterne, cioè fondersi per utilizzare economie di scala, un po’ come avviene nel trasporto aereo. Iliad è la Ryanair dei telefonini. Labriola ha criticato l’accordo del quale si parla tra Fastweb (che fa capo a Swisscom) e Vodafone, magari teme che la sua azienda sia destinata a una sorte simile? In Europa ci sono 45 compagnie con oltre 500 mila clienti ciascuna, negli Usa otto, in Giappone quattro come in Cina. La numero uno europea è Deutsche Telekom quasi dieci volte più grande della Tim attuale. L’amministratore delegato forse è in grado di guidare contromano. Ha chiamato il suo piano Free to run, gli investitori hanno risposto “free to run away”.

Anche in questo caso la realtà ha molte facce. Se il mercato avesse bocciato l’intero progetto, avremmo visto un’ondata di vendite pure delle obbligazioni. Invece non è successo e molti proprio ieri si stupivano di questa divergenza tra bond e azioni. L’amministratore delegato ha spiegato che quel debito di 7,5 miliardi sarebbe due volte il margine operativo lordo, un livello inferiore ad altre compagnie, anche straniere. Più snella e con una buona redditività, la Tim può stare dunque sul mercato, ma è fondamentale che la cessione della rete vada in porto e si trovi un accordo con il maggior azionista. La Consob indaga. Sospetti pesanti sono caduti proprio su Vivendi il gruppo controllato da Vincent Bolloré che si oppone alla vendita, quanto meno a questi prezzi (attorno ai 20 miliardi di euro). Vivendi ha già perduto molti quattrini da quando nel 2015 ha acquistato il 23,7 per cento delle azioni per 4 miliardi di euro e recentemente ha svalutato di 1,3 miliardi la sua partecipazione. Davvero gioca al cupio dissolvi ed è disposto a perdere tutto pur di vendicarsi per essere stato ingabbiato per anni dalla politica italiana? Oppure vuol far cadere Labriola, riprendere il controllo e annullare lo scorporo della rete? Gli obiettivi di Bolloré e del suo plenipotenziario Arnaud de Puyfontaine sono francamente oscuri ai più. Quando lunedì sono riprese le vendite delle azioni Tim sia Vivendi sia la Cdp secondo socio con il 9,8 per cento, hanno fatto sapere di non aver partecipato alla riffa. 

La telenovela va avanti da almeno vent’anni tra alti e bassi. Quando a Palazzo Chigi sedeva Romano Prodi, nel 2007 venne alla luce un dossier di Aldo Rovati, amico e consigliere del Professore, con la proposta di creare due società, una solo di servizi e una per l’infrastruttura. Venne bocciata. Nel governo Draghi era contrario Vittorio Colao, ma ha dovuto far ritirata. Alla Telecom era contrario Franco Bernabè, ma alla fine non gli hanno dato retta. L’ampio fronte neo statalista (sindacati, Cinque stelle, parte della Lega e molti dei Fratelli d’Italia) chiede un intervento pubblico magari attraverso la Cassa che non potrebbe farlo nemmeno se volesse. La sua priorità riguarda Open Fiber della quale ha la maggioranza, che scava per mettere la fibra ottica e spende miliardi senza avere finora un ritorno. Al punto in cui siamo, nessuno vuole che il progetto fallisca. Sarebbe una catastrofe per l’attuale Tim e uno smacco anche per Kkr e le banche d’affari che hanno assistito il fondo americano, tra le quali la Morgan Stanley e la JP Morgan, nella prima si occupa dell’Italia Domenico Siniscalco nella seconda Vittorio Grilli, già ministri del Tesoro e proprio a Palazzo Sella hanno conosciuto Gaetano Caputi oggi capo gabinetto di Palazzo Chigi. Meno debiti per Tim, mentre il governo in un prossimo futuro si sarebbe liberato del fardello Open Fiber. Niente nazionalizzazioni, nessun sovranismo. Una soluzione intrigante per il rompicapo Telecom, anche se ci sono ancora troppe incognite, industriali non solo finanziarie. Una unica rete fissa? Ne resteranno almeno quattro: la ex Tim, Open Fiber, Fastweb, Sparkle. L’Italia tutta connessa in fibra ottica? L’infrastruttura Telecom è prevalentemente in rame; anche se molto potenziata, non potrà essere sostituita del tutto, mentre prendono spazio le super connessioni via etere, tra le quali quella satellitare di Elon Musk, la Starlink. Sono le domande di chi ragiona con il buon senso senza farsi schiavo del senso comune.

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