(foto Ansa)

l'analisi

Tutte le “follie italiche” sulle concessioni idroelettriche

Oscar Giannino

Lo scontro con l’Ue e quello nella maggioranza. Esempio di una politica che dice una cosa e ne fa un’altra

Le concessioni idroelettriche sono una riedizione aggravata dello scontro in maggioranza già avvenuto sull’abrogazione del mercato elettrico “tutelato”. Il ministro Fitto è per le gare, su cui con Bruxelles ci siamo impegnati nel Pnrr, ma tutti i partiti della sua maggioranza no. La materia offre un classico spaccato delle follie italiche. Ergo per capirla bisogna spiegare un po’ di cose. In Italia  gli impianti di generazione elettrica da fonte sono 4.509, tra quelli ad acqua fluente, da bacino o serbatoio regolabile giornalmente. Siamo il terzo paese Ue per potenza idroelettrica installata, con oltre 22 Gw di potenza elettrica lorda e una realizzata superiore ai 50 TWh, circa il 18 per cento dei consumi nazionali elettrici. Le grandi derivazioni idroelettriche si concentrano in Lombardia (71), Piemonte (68), Trentino Alto Adige (47), il 79 per cento di esse è in scadenza tra il 2023 e il 2029. Oltre il 40 per cento degli impianti italiani ha più di 40 anni, solo il 15 per cento è stato rinnovato negli ultimi 20. L’idroelettrico resta la prima fonte di energia elettrica rinnovabile, oltre il 40 per cento delle Fer italiane. Ha un ruolo di stabilizzazione della distribuzione elettrica adeguandosi sia ai minimi sia ai picchi di domanda, rispetto alle altri fonti non soffre di dipendenza dall’estero, ergo significa sicurezza di approvvigionamento. Il lifecycle assessment delle sue emissioni di CO2 è il più basso tra tutte le fonti energetiche, sia da fossili sia eolica che solare. Dovremmo far tesoro di tutto questo e puntare a far crescere l’idroelettrico molto più del limitato +1,8 per cento previsto dal Piano nazionale integrato per l’energia e il clima  (Pniec). Tanto più se vogliamo prendere sul serio i temibili obiettivi di accelerazione green posti dal Fit for 55. 

 

Veniamo alle follie regolatorie degli ultimi decenni. Il decreto Bersani 79/99) stabilì al 2029 la scadenza di tutte le concessioni idro passate a Enel con la statalizzazione del 1962. Parte da lì una lunga storia di rimpiattini tra Roma e Bruxelles. Chiariamo intanto una premessa. Non c’è alcuna omogeneità europea sulle concessioni idroelettriche. L’orizzonte massimo dei 20 anni prorogabili eccezionalmente fino a 40 anni delle concessioni che Bersani prevedeva per le nuove gare faceva a pugni con i 75 anni e oltre vigenti allora in Francia, Portogallo e Spagna. In Finlandia e Svezia erano addirittura illimitate. Come nel Regno Unito, fino al 2003 quando ci fu una prima apertura a procedure competitive. Ma poiché tutte quelle vigenti al 2003 restavano illimitate, di concorrenza vera sull’idro non si parla neanche nel paese della signora Thatcher.  Le asimmetrie europee non riguardano solo la durata della concessione, ma anche lo strumento giuridico. La concessione esiste solo in pochi casi come in Francia e Svizzera. Altrove sono permessi (Germania, paesi dell’est Europa, Svezia e Finlandia), mentre Norvegia Grecia e Regno Unito si affidano a licenze.

 

Non c’è standard comune neanche per definire le grandi derivazioni idroelettriche, ed è a questa definizione che sono appesi di solito gli obblighi competitivi: da noi le grandi derivazioni sono oltre i 3 Mw, in Germania 1 Mw, in Austria addirittura 10 Mw. Non c’è standard neanche tra poteri nazionali e decentrati in materia. In Francia tutto il potere è al governo, regioni e dipartimenti non possono nulla sull’idro. In Spagna le grandi derivazioni sono normate dallo stato e le minori dalle autonomie. In Svezia invece gli interventi sui permessi idroelettrici spettano a organi giurisdizionali, ai cinque tribunali amministrativi territoriali. Noi abbiamo fatto peggio di tutti. Tre anni dopo la Bersani con la riforma del Titolo V della Costituzione abbiamo mal affettato i poteri tra stato e regioni: al primo restano quelli di tutela di ambiente e concorrenza, ma produzione, trasporto e distribuzione di energia elettrica sono diventate materia di competenza concorrente. L’effetto di tutto ciò è che sulla carta nel 1999 l’Italia si pose alla testa della liberalizzazione scegliendo i princìpi della temporaneità e contendibilità delle concessioni. Ma poi tutto si incartò  per poi incartarsi subito. La Spagna è oggi il paese che ha fatto più passi avanti reali per gare trasparenti. La Francia li ha fatti per finta, successivi interventi del Parlamento hanno prolungato a grandi concessionari la scadenza dal 2023 al 2041. Ma la Bersani prevedeva anche che nella gara ci fosse una preferenza per il concessionario uscente, e dunque l’Unione europea procedette a una rapida messa in mora dell’Italia. Nel 2005 la legge 266 accolse le obiezioni comunitarie cancellando la prelazione a favore dell’incumbent, e Bruxelles archiviò l’infrazione. Ma fu la Corte costituzionale a bocciare la norma, in quanto lesiva delle competenze regionali secondo il nuovo articolo 117 della Carta. Nel 2010 governo e Parlamento concordano una nuova norma, il decreto legge 78/2010, in cui si stabilisce pilatescamente una proroga di 5 anni per le concessioni di grande derivazione e di 7 anni se affidate a soggetti pubblici. E a quel punto Bruxelles apre una seconda procedura d’infrazione per eccesso di tutela degli incumbent, e anche la Corte costituzionale riboccia il nuovo decreto per lesa maestà delle regioni. Si arriva al decreto legge 83 del 2012, che stabilisce come regioni e province autonome debbano indire gare 5 anni prima della scadenza delle concessioni, e con durata della medesima minima di 20 anni ma non oltre i 30. Bruxelles rimette in mora l’Italia: la nuova norma obbliga il concessionario entrante ad acquisire l’intero ramo aziendale dell’uscente, ergo è un ostacolo indebito alla concorrenza. Nel 2019 si aggiunge una nuova tegola: il decreto legge numero 12 di quell’anno dispone che la proprietà di tutte le “opere bagnate” (che hanno a che fare direttamente con raccolta, condotte e forzate se scarico dell’acqua) alla scadenza delle concessioni passi alle regioni senza alcun indennizzo agli uscenti. Norma ovviamente considerata come un affronto dai concessionari attuali. In sintesi, oggi indire le gare spetta alle regioni, e lo stato può dare solo indicazioni generali. Possono farlo sia con gare a evidenza pubblica, sia affidando le concessioni a soggetti pubblico-privati. Ma sono le regioni a decidere nelle gare procedure di assegnazione, requisiti finanziari, organizzativi e tecnici necessari per concorrere. Non è finita: nel marzo 2019 sulle concessioni parte una raffica di procedure d’infrazione comunitaria n cui l’Italia è accomunata ad Austria, Germania, Polonia, Regno Unito, Svezia, Francia e Portogallo. Tutti accusati di non procedere a gare trasparenti ed eque, o di proroghe contrarie ai princìpi del Trattato Ue. Finirà con un’archiviazione generale, tre anni dopo. Intanto, partiva anche questa volta da Roma una raffica di impugnative contro le leggi regionali che intervenivano in materia di concessioni idroelettriche. Sommando tutti gli aspetti, un caos da brodo primordiale. 

 

Conclusioni. Le incertezze in materia del ddl Concorrenza dell’attuale governo, e il fatto che la Commissione Ue ha ancorato a gare trasparenti e concessioni non eterne e non un  pezzo di rata del Pnrr, derivano dalla follia in materia della politica italiana, che in 30 anni ha cercato in ogni modo di dire una cosa e farne un’altra. Cosa che ci ha sempre indebolito di fronte a Bruxelles, molto più di chi continuava in proroghe illimitate.  Secondo: lo scontro tra Fitto – gare, come dice Bruxelles – e tutti i partiti della sua maggioranza – gare per finta, accompagnate da possibilità di conferma degli incumbent – andrebbe affrontato numeri e obiettivi alla mano. Nell’aprile 2022  l’European House-Ambrosetti ha rilasciato un paper molto analitico sul tema, in cui alla luce delle asimmetrie Ue e del confitto di poteri stato-regioni, si concludeva che il meglio era procedere a una nuova proroga delle concessioni perché solo così si può contare su 9 miliardi di investimenti aggiuntivi nel breve-medio periodo, impossibili se ci si imbarca per anni nelle gare. Sulla prima pagina del report campeggiavano i brand di Enel, A2A ed Edison, gli attuali protagonisti tra i concessionari: ovvio che quella fosse e sia la loro tesi, il solito manzoniano quieta non movere. Terzo: il governo dovrebbe partire dall’idea che le regioni del nord dove si addensano le grandi concessioni hanno fatto il loro dovere: in particolare le norme adottate da Lombardia e Trentino Alto-Adige consentirebbero gare veloci e trasparenti con buon corredo di specifiche tecniche (la Lombardia è quella che ha lavorato meglio, i dati dei concessionari si trovano online). Su questa base si potrebbe proficuamente lavorare per un passaggio alle gare che metta a matrice, oltre a maggiori investimenti per concorrere ad aggiudicarsi gli impianti, anche obiettivi di politica industriale. Per esempio su quote elettriche da garantire alla manifattura e agli energivori regionali, visto che se no l’Italia resta nuda rispetto ai prezzi calmierati elettrici che Berlino e Parigi offono ai loro manifatturieri per anni a venire. Si può fare si dovrebbe fare, magari anche con un risveglio dell’Arera su come fare le gare (il contributo a quelle sulla distribuzione del gas fu ottimo), invece di ridurre tutto al solito rodeo tra sì e no al mercato, dove il no prevale tra i partiti che non hanno il minimo interesse a scontentare i rentiers.