Arcelormittal - foto Ansa

L'analisi

Perché l'Italia non è un paese per grandi imprese private

Stefano Cingolani

Da ArcelorMittal a Intel, perché non qui? Non è solo mancanza di aiuti pubblici, ma un sistema che non va

Un’altra Ilva fuori di qui? Uno dei romanzi più intriganti del duo Fruttero e Lucentini è intitolato “A che punto è la notte”: un thriller a chiave che racconta di un top manager della Fiat il quale segretamente porta all’estero pezzi dell’azienda. C’è dell’imbroglio naturalmente, del lucro personale, c’è un delitto, ma c’è anche la convinzione che non fosse più possibile fare industria nell’Italia di allora: siamo nel 1979, poco dopo l’assassinio di Aldo Moro, quando le Br uccisero Guido Rossa, l’operaio dell’Ansaldo segretario della sezione del Pci. Quel tempo è passato, per fortuna, tuttavia il racconto torna in mente quando si legge che i rajah dell’acciaio, i Mittal, intendono spendere 1,8 miliardi di euro insieme al governo francese per decarbonizzare l’acciaieria di Dunkerque. Perché là e non qua? In realtà, bisogna dire che hanno investito anche all’Ilva in attesa che lo stato azionista facesse la sua parte.

 

 

Non si sono comportati da signori, eppure poche volte come in questa storia la verità ha più facce. E l’Ilva non è affatto un caso a sé. La stessa domanda (perché non qui?) si può ripetere per Intel che va in Germania o per Stellantis, per l’americana Whirlpool o per la Italvolt messa in piedi da Lars Carlstrom con l’intento di creare una gigafactory. L’imprenditore svedese è un personaggio sulfureo, sia chiaro. Ha provato con la ex Olivetti di Scarmagno, poi ha puntato sulla grande area dismessa a Termini Imerese, la ex Fiat. Forse voleva solo speculare, ma ha fatto rapidamente marcia indietro perché sia i sindacati sia le autorità politiche gli avevano chiesto di assumere subito i 600 lavoratori siciliani che da 12 anni sono in cassa integrazione. “Siamo interessati all’area – si è giustificato – non a prendere un così enorme rischio”. Possiamo considerare anche lui come i Mittal un capitalista inaffidabile, ma c’è della logica in questo comportamento, la stessa che ha bloccato a lungo la vicenda Alitalia.

Prendiamo i signori dell’acciaio. Il contributo dello stato francese, in attesa dell’ok dall’Unione europea, ammonta fino a 850 milioni di euro per gli investimenti effettivi realizzati. ArcelorMittal inoltre firmerà una lettera di intenti con la Edf ( Électricité de France) per un contratto di fornitura a lungo termine di energia nucleare. È uno dei costi maggiori per un’acciaieria e il balzo del prezzo del gas è stato l’ultima goccia che ha fatto traboccare i conti dell’Ilva. Tuttavia, anche ora che si sta tornando alla normalità, l’energia in Italia è ben più cara che in Francia. È molto probabile che Mittal, come si dice, non consideri più l’Europa centrale nella sua strategia mondiale, ma se è così, l’Italia è più periferica di altri paesi Ue. Non è solo questione di denaro, che l’Italia non ha perché gravata da un enorme debito pubblico. Anche perché per l’Alitalia, per il Montepaschi o per pagare casse integrazioni decennali (per non parlare del Superbonus), di soldi ne sono stati spesi a volontà. 

L’Italia non fa sistema, si dice. In realtà non fa sistema per la grande impresa privata, al contrario di quel che si proclama a destra come a sinistra. Fulvio Coltorti, già capo ufficio studi di Mediobanca e oggi docente alla Cattolica, ha pubblicato un suo saggio molto eloquente su Il Politico, la rivista dell’Università di Pavia. “L’Italia è l’unico paese – scrive – nel quale la spinta notevole allo sviluppo economico nell’ultimo Dopoguerra non si è accompagnata all’aumento dimensionale delle imprese, ma ne ha aumentato il numero”. Con la globalizzazione tutti si aspettavano come vittime sacrificali le piccole aziende, invece le vittime eccellenti sono state le grandi in mani private, anche in questo caso al contrario della narrazione prevalente. Perché? Una ragione è che “le grandi competevano non per massimizzare i profitti, ma per massimizzare posizioni di potere”. Inoltre è prevalsa la logica finanziaria rispetto a quella industriale, tanto è vero che è peggiorata la qualità del capitale investito e si è ridotta la sua quantità. Quindi è colpa di “questo capitalismo finanziario e politico” al quale ha fatto da pendant l’ideologia del “piccolo è bello”, un piccolo spesso protetto da lobby che assicurano voti e consenso. Le uniche grandi aziende ormai sono quelle di stato, ben più grandi oggi che un tempo, prima che cominciassero le privatizzazioni. Coltorti calcola su dati Mediobanca  che il fatturato delle prime dieci imprese controllate dallo stato nel 1991 era di 75 miliardi di euro e nel 2016 era raddoppiato; quello delle maggiori aziende private italiane è crollato da 55 a 29 miliardi. Il vuoto è stato solo in parte compensato da società estere o italiane “emigrate” (si tratta di 55 miliardi di euro). A questo punto anche molte di loro preferiscono andar “fuori di qui. Ricominciare dove c’è vero mercato, vera industria, vera produzione”. Così nel romanzo che s’è fatto realtà.

Di più su questi argomenti: