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gli errori che hanno condotto al disastro

L'Ilva e l'Italia delle balle d'acciaio

Claudio Cerasa

Ambientalismo tossico, europeismo tafazziano, magistratura populista, sindacato ideologico, paura del futuro. I guai dell’acciaieria di Taranto sono i guai dell’Italia. Chiacchiere con Antonio Gozzi, numero uno di Federacciai 

Quando si parla di Ilva, della ex Ilva, tutto torna. Tutto insieme. Tutto in un unico cocktail tossico. Ambientalismo ideologico, europeismo tafazziano, magistratura populista, sindacato senza visione, politica demagogica, paura del futuro. La storia degli ultimi giorni della ex Ilva ormai la conoscete. Due giorni fa, come sapete, i soci di Acciaierie d’Italia, che gestiscono tra gli altri il più grande stabilimento di acciaio del nostro paese, a Taranto, non hanno trovato un accordo per aumentare il capitale della società. ArcelorMittal, che controlla il 62 per cento di Acciaierie, ha scelto di bocciare una proposta emersa in assemblea, per iniettare nella ex Ilva liquidità pari a un miliardo e 300 milioni, e il governo, che nella ex Ilva è presente attraverso il 38 per cento di Invitalia, lunedì ha invitato l’azionista di maggioranza a farsi da parte, a scendere nel controllo dell’azienda, annunciando di essere pronto a salire fino a una quota tra l’80 e il 60 per cento.

La situazione di Ilva è drammatica. Nel 2018 ArcelorMittal acquistò la maggioranza della società a 4 miliardi di euro. Oggi l’ex Ilva ha debiti per 1,2 miliardi. La storia dell’ex Ilva la si può raccontare concentrandosi sui dettagli, sui numeri, ma la si può raccontare anche concentrandosi sulla stratificazione dei problemi su cui è maturato il disastro dell’acciaieria più famosa d’Italia. E se si osserva quella stratificazione si capirà qualcosa di interessante, e drammatico, non solo su Ilva ma anche sull’Italia. Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, ci aiuta a mettere insieme i puntini, a orientarci nella stratificazione dei problemi, e ci suggerisce di mettere insieme alcuni temi attraverso i quali capire perché i problemi della ex Ilva sono gli stessi che riguardano l’Italia. La premessa, dice Gozzi, è che gli azionisti da tempo avevano fatto capire che l’ex Ilva più che farla ripartire la volevano bloccare. “In India, base operativa di ArcelorMittal, si producono 150 milioni di tonnellate di acciaio, per 1,3 miliardi di abitanti. Con gli stessi abitanti la Cina produce circa 1,3 miliardi di acciaio. Non ci vuole molto a capire che interesse dell’azionista franco-indiano è quello di sfruttare al meglio quel bacino evitando che vi possano essere altri concorrenti, Ilva compresa, e in modo coerente ArcelorMittal ha fatto di tutto per deconsolidare una compagnia. Ci è riuscito. Ora bisogna guardare avanti”. Gli strati, si diceva. “Il primo strato preoccupante riguarda, purtroppo, la miopia dell’Europa, su questo tema. E il tema è semplice: se scegli un approccio demagogico alle politiche ambientali, prima o poi ne paghi le conseguenze. Ed è quello che sta succedendo a Taranto”. 

In che senso? “In Europa si producono 150 milioni di tonnellate di acciaio. Di queste, 90 milioni vengono prodotte con gli altiforni, dunque con il carbone. I restanti 60 milioni con il forno elettrico. Un terzo di questa produzione è fatta in Italia e ciò pone il nostro paese all’avanguardia nella produzione dell’acciaio decarbonizzato. Per ogni milione di tonnellata prodotta con il carbone, si emettono due milioni di tonnellate di CO2. A partire dal 2028, le normative europee, uniche al mondo, prevedono che vi debba essere un costo per la produzione di CO2. Più o meno cento euro a tonnellata. Per l’ex Ilva significherebbe avere un costo annuale di circa 800 milioni di euro. Per l’Europa significa aver deciso che la siderurgia a ciclo integrale deve chiudere”.

Strato numero due: la magistratura. “Il disastro di Ilva affonda le sue radici in un contesto di provvedimenti giudiziari dissennati”, dice Gozzi. E’ stato dissennato, evidentemente, l’esproprio senza indennizzo avvenuto nel 2012 ai danni della famiglia Riva, che all’epoca investiva 350 milioni di euro all’anno per le manutenzione della fabbrica. Ma è stato dissennato, dice Gozzi, anche per altro. “A Taranto, per ragioni ideologiche, vi sono ancora impianti sequestrati, la cui riapertura è subordinata al giudizio della magistratura e non della Pubblica amministrazione. Le prescrizioni del Piano ambientale, sull’ex Ilva, sono state realizzate al 98 per cento, ma nonostante questo l’altoforno in funzione all’ex Ilva resta solo uno”. Il tutto, altro strato, con la complicità dei sindacati. “Il sindacato deve entrare in uno spirito nuovo. Deve ragionare come attore industriale. Deve essere protagonista. Finora, purtroppo, ha scelto una strada diversa, sull’ex Ilva, e ha scelto di trasformare l’ambientalismo in un’ideologia, in una religione, scegliendo di cavalcare un’onda populista purtroppo ricorrente: quella di chi accetta di seguire politiche ambientaliste realizzabili solo a condizione di deindustrializzare il paese”.

Strato dopo strato si arriva alla politica. “Mi piacerebbe che qualcuno promuovesse un’operazione di verità e rendesse pubblico il patto parasociale con cui il primo governo guidato da Giuseppe Conte ha scelto di coprire l’eliminazione dello scudo penale. Lo scudo penale era necessario per proteggere i possibili investitori, nell’ex Ilva, dalle esondazioni purtroppo non rare della magistratura. Per togliere quello scudo penale, il governo diede a ArcelorMittal poteri infiniti: controllo della governance anche se in minoranza, indennizzo da 500 milioni nel caso in cui lo stato dovesse venire meno alle sue promesse. Ma quel patto è segreto ed è un male. Andrebbe reso pubblico. E andrebbe resa pubblica anche la verità sui debiti che gli azionisti privati hanno lasciato a Taranto”.

Meglio la nazionalizzazione? “Meglio la nazionalizzazione, sul modello Marchionne, quando l’ex presidente americano Barack Obama mise lo stato al centro dell’operazione di fusione tra Fiat e Chrysler. Prestito a tempo, intervento dello stato a tempo e poi di nuovo ai privati. Purtroppo in giro non vedo un Marchionne”.

L’assenza della politica pesa a livello nazionale ma anche a livello europeo. E in Europa Gozzi intravede un altro strato. “Nel luglio del 2023, la Commissione europea ha approvato due misure varate dal governo tedesco per sostenere il programma di decarbonizzazione dell’acciaieria di Duisburg messo a punto da ThyssenKrupp Steel Europe. Progetto: due miliardi di euro per sostituire i vecchi altiforni con forni elettrici. Il peso di un paese si vede anche in questi dettagli. Cosa aspetta l’Italia a farsi approvare un piano analogo di aiuto di stato per dare un futuro all’acciaieria più importante d’Europa?”. Guardi la storia della ex Ilva e capisci che attorno all’impianto di Taranto non vi è solo il futuro della nostra politica industriale ma c’è anche la capacità del nostro paese di governare la paura del progresso,  di considerare incompatibili con il benessere di una nazione le politiche ambientali demagogiche, a considerare dovere di uno stato intervenire con forza, anche con durezza, per ristabilire l’ordine quando la magistratura si sostituisce ai governi, quando i pm si sostituiscono ai ministri e quando gli interessi di un investitore privato diventano incompatibili con l’interesse nazionale. Si scrive Ilva, si legge Italia.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.