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L'incontro

L'azzardo del governo su Ilva, che prepara l'accordo con Mittal

Annarita Digiorgio

Pur essendo il primo e più importante dossier da affrontare, nella conferenza stampa di inizio anno il futuro dell’Ilva non ha trovato spazio. Lunedì l'incontro per cercare una nuova intesa con la multinazionale

Non ci sarà Giorgia Meloni nell’incontro di lunedì a Palazzo Chigi con Aditya Mittal, ceo internazionale di ArcelorMittal. Diversamente da Giuseppe Conte, che il 22 novembre 2019 accolse personalmente la famiglia Mittal, consegnandogli il suo libro “Impresa Responsabile”. Fu allora che annunciò il ritiro della causa del secolo e la possibilità di un’intesa tra lo stato e la multinazionale dell’acciaio. L’accordo andò in fumo. Così lunedì ridiscuteranno con l’azienda il sottosegretario Alfredo Mantovano e i ministri Raffaele Fitto, Adolfo Urso e Giancarlo Giorgetti. Che a riguardo non dicono una parola. Del resto, pur essendo il primo e più importante dossier da affrontare, nella conferenza stampa di inizio anno il futuro dell’Ilva non ha trovato spazio. Persino i sindacati metalmeccanici convocati a Palazzo Chigi hanno detto di non avere ancora nessun documento, riferendosi ai famosi patti parasociali firmati proprio durante il governo Conte e tenuti segreti, nonostante sarebbe bastata una semplice interrogazione parlamentare per renderli pubblici. Ed è in quei patti che si nasconde il tranello che terrorizza il ministro Fitto e frena i sindacati: da una parte l’accordo che porterebbe i libri contabili in tribunale, con un contenzioso soccombente per lo stato e vessatorio per le sue casse, dall’altro i veri patti su esuberi e cassa integrazione. Partiamo da qui. 


Il giorno della foto di Conte con Mittal, l’allora premier lo disse chiaramente: il paletto alzato dal governo a fronte dell’accordo fu “garantire il massimo livello di occupazione”. Il governo si disse disponibile a coprire “anche con misure sociali, se necessario”. Uscirono così dal tavolo i cinquemila esuberi pretesi fin dal primo giorno della crisi. Che però, dal giorno dopo, si trasformarono in cassa integrazione straordinaria. E sono ancora tutti lì, a fare di Taranto una città zombie. Dall’altra parte c’è un piano industriale mai realizzato, presentato dall’allora ad di Invitalia Domenico Arcuri, con i ministri Roberto Gualtieri e Stefano Patuanelli, che prevedeva la produzione di 8 milioni di tonnellate di acciaio da 3 altoforni (con revamping Afo5) e due forni elettrici. C’è anche un piano ambientale, rimandato durante gli anni di gestione diretta del pubblico attraverso amministrazione straordinaria (As), completato con due miliardi spesi dal socio privato. L’incontro di lunedì prossimo si rende necessario per trovare un nuovo accordo tra pubblico e privato, dopo due mesi di trattativa fallimentare tra Invitalia e socio italiano all’interno del cda. Con veline, documenti interni e lettere che venivano spiattellate dalla stampa a cda aperto. Non è difficile comprendere da chi. 


Invitalia, su input di Urso, da quando Fitto ha firmato il memorandum, ha di fatto impedito di trattare con l’As il prezzo di vendita al netto dei claims, fissandosi sulla cifra di un miliardo. È stata rigettata così la proposta di delibera con cui si proponeva l’aumento in quota parte di 320 milioni e la compensazione del prezzo di vendita degli impianti da Ilva in amministrazione straordinaria, propendendo più sugli interessi di quest’ultima, che deve rimborsare 700 milioni a Mef e Cdp (oggetto di infrazione per aiuti di stato), che su quelli di Acciaierie d’Italia. Un ennesimo mancato accordo nel cda avrebbe comportato il commissariamento e la gestione diretta del tribunale di Milano. Ma non considerare le responsabilità di un’azienda pubblica, mentre si lavora per aumentarne la quota societaria in una strategica, è un errore politico. A cui si sommano quelli industriali, con la totale incompetenza, o assenza, di manager pubblici della siderurgia. E quelli elettorali.

 

Ciò che il governo sta facendo oggi è dire che si va verso una nazionalizzazione a tempo, con l’obiettivo di trovare nuovi soci privati entro sei mesi. La realtà è che non c’è nessun investitore privato che vuole Ilva, con quei debiti, queste leggi, questi pm, questa classe politica, e anche questi tarantini. Come ha detto chiaramente il segretario della Uilm Rocco Palombella: “Persino i confindustriali oggi non la considerano più strategica, ma un impianto da 3 milioni di tonnellate di acciaio, facilmente sostituibili o cui andare in concorrenza”. Il vero piano è fare una mini Ilva di stato, da tre milioni di tonnellate, utile per avere finanziamenti comunitari, accontentare l’indotto e la politica locale, e socializzare le perdite. Restano i famosi cinquemila esuberi, che manterranno la cassa integrazione a vita. Ma potranno sempre dire di aver mantenuto la continuità aziendale, ed evitato libri in tribunale, procedure fallimentari, un altra causa del secolo e una nuova Bagnoli.