Il racconto

Chi ha demolito l'Ilva. Storia di un gran disastro che nessuno ha voluto vedere 

Stefano Cingolani

Le intemerate dei politici pugliesi, i sindacalisti, magistrati, gli ambientalisti, l’immobilismo dei decisori. E molto altro. Chi ha ucciso l’acciaieria più importante d’Europa?

Non se n’è fatta una giusta da quando nel 2012 i magistrati hanno tolto per la prima volta all’Ilva la gestione degli impianti (un anno dopo verranno estromessi i Riva). Adesso poi si rischia di commettere altri sbagli o di coltivare altre illusioni. Nazionalizzare subito, via i Mittal, dicono i sindacati. Ma, a parte il fatto che sono proprio i Mittal a volersene andare dall’Italia e anche dall’Europa dei lacci e lacciuoli, che cosa se ne farà lo stato una volta diventato di nuovo padrone? Dal gran parlare, dal fiume di parole e di chiacchiere, non emerge uno straccio di strategia.

In tutto questo tempo, il circo mediatico-politico ha nutrito due racconti sull’acciaio e sul siderurgico di Taranto che non hanno fondamento. Il primo è che gli altiforni rombanti e inquinanti non solo sono pericolosi, ma non servono. L’Italia, come tutti i paesi impegnati nella transizione industriale, non ha più bisogno di acciaio primario, costoso, pericoloso, inquinante se una tonnellata di prodotto genera due tonnellate e mezzo di anidride carbonica. Il secondo è che lo stato, di riffe o di raffe, ha bruciato miliardi in quelle dannate colate di ferro e carbone. Basta raccogliere le intemerate dei politici pugliesi, dei sindacalisti, dei magistrati, degli ambientalisti, per avere un’idea del tam tam che ha dipinto l’Ilva di Taranto come se fosse l’Alitalia. Il rumore di fondo ha influenzato i governi che si sono succeduti finora, nessuno dei quali ha saputo offrire una chiara direzione di marcia, forse perché nessuno aveva in testa una prospettiva industriale per “il paese dove crescono i limoni” destinato a detta di molti sia a destra sia a sinistra, a vivere di stabilimenti balneari e bed&breakfast (ah il turismo, signora mia, il nostro petrolio!). Giorgia Meloni finora si è tenuta fuori, ma i suoi ministri si sono divisi tra Raffaele Fitto, politico pugliese d’origine controllata, convinto di poter indurre i Mittal a restare con incentivi non con ragionamenti, e Adolfo Urso il quale preferiva uno showdown con una sorta di nazionalizzazione temporanea alla Montepaschi, in attesa di trovare dei soggetti industriali in grado di intervenire con uomini e ancor più con capitali.

La prima narrazione non regge guardando ai numeri. L’Italia consuma circa 23 milioni di tonnellate l’anno, ne importa circa dieci, quindi è in deficit strutturale. L’80% della produzione attuale avviene con forni elettrici che utilizzano rottame ferroso. Il risultato serve soprattutto per l’industria delle costruzioni. L’acciaio cosiddetto primario, quello che non deriva dai rottami, ma fonde materiale ferroso e carbone negli altoforni, viene utilizzato per produzioni come la meccanica, l’automobile, gli elettrodomestici o nell’industria della difesa, settori strategici, manifatture nelle quali l’Italia tiene bene il passo con i maggiori paesi avanzati e con quelli che incalzano da quel che un tempo si chiamava Terzo Mondo. La maggior parte dell’acciaio importato veniva dall’Ucraina e dalla Russia, due mercati che oggi sono preclusi, il primo per ragioni fisiche (la distruzione dell’Azovstal a Mariupol ha ridotto di due terzi la capacità produttiva di uno dei maggiori esportatori di prodotti siderurgici), il secondo per ragioni politiche evidenti. La Cina oggi sforna il 55% dell’acciaio mondiale, poi c’è l’India seguita dal Giappone, l’Italia era al decimo posto testa a testa con l’Iran e resta seconda in Europa dopo la Germania. Dunque, non si tratta di un settore marginale. Taranto che quando era nelle mani della famiglia Riva produceva fino a 9 milioni di tonnellate, oggi sono ridotte a tre. Un vuoto che va riempito. Se vogliamo raddoppiare la costruzione di automobili in Italia, abbiamo bisogno di aumentare in modo considerevole la produzione  da altoforni. Se viene a mancare l’acciaio primario, dunque, la dipendenza italiana aumenta e da paesi non certo amici. Perché la siderurgia è un settore ad alta sensibilità geopolitica, non minore a quella degli idrocarburi. 


La seconda narrazione, cioè l’equazione Ilva-Alitalia, è ancor più fuorviante. La crisi di Taranto ha pesato sull’economia italiana, quindi ci sono senza dubbio dei costi che ricadono su tutti noi, ma se parliamo di denaro buttato, allora chi ha pagato di più sono i Riva espropriati per ragioni e con modi che bisognerà analizzare prima o poi in modo oggettivo. Ha gettato soldi in modo sconsiderato anche ArcelorMittal, circa 1,8 miliardi che oggi cercano di recuperare almeno in parte con il loro rifiuto all’aumento di capitale e con un disincaglio che passerà per vie giudiziarie. Hanno bruciato quattrini i magistrati che per un anno hanno sequestrato la liquidità aziendale. Hanno sperperato i politici che anziché cercare una soluzione strategica hanno cercato di prendere tempo. Ha gettato al vento tempo e denaro il movimento No Ilva, rumoroso e trasversale tanto da attrarre chi ha guidato la Puglia voglioso di applausi e facili consensi. Il presidente Emiliano è venuto a più miti consigli quando ha capito che la chiusura con annessi licenziamenti in massa è diventata una possibilità ravvicinata, ma per tanto tempo ha accarezzato ipotesi fantasiose. “La transizione dell’area a caldo dall’assetto tipico del processo siderurgico integrale a quello con forno elettrico è sicuramente possibile”, scrivevano in coro dal comune alla regione al governo Draghi. “La produzione di acciaio mediante forni elettrici è ormai una tecnologia consolidata e di larga scala anche per i laminati piani, che sono i semilavorati che vengono utilizzati negli impianti a freddo tarantini”, proseguiva il dossier, che avanzava anche un’ipotesi su come produrre l’energia necessaria. “Con il rottame, che potrebbe arrivare anche dalle demolizioni degli stessi impianti dismessi”, si leggeva. La questione ambientale è strategica, sia chiaro, tuttavia non si dice mai quanti investimenti sono stati fatti in questi anni e come sono stati trasformati gli impianti. Gas, idrogeno futuro, is parla, si discute, si progetta. Ma il nocciolo duro è l’altoforno e il partito del No resta ancora ampi, vociante e trasversale.


Che succede a questo punto? La guerra legale sarà inevitabile. ArcelorMittal imputa allo stato di aver versato solo 350 milioni di euro invece dei due miliardi promessi. Il governo impugnerà la ritirata del socio privato il quale ormai da tempo ha maturato la sua scelta strategica. L’Ilva era stata già separata dal resto del gruppo, primo in Europa e secondo al mondo con quasi 70 milioni di tonnellate, subito dopo il cinese Baowe che produce quasi il doppio. Inoltre l’amministratore delegato Aditya Mittal aveva più volte detto che il loro futuro è sempre più nel resto del mondo, Taranto è il principale stabilimento europeo, ma per loro è inagibile, quindi preferiscono mantenere le acciaierie in Belgio, Francia, Germania, Spagna. In generale l’Europa è considerata troppo cara, poco competitiva e bloccata da regolamentazioni considerate eccessivamente rigide.


Intanto all’Ilva bisognerà pagare i fornitori e garantire che gli impianti funzionino almeno  al 50% (tre milioni di tonnellate anziché sei). Il governo potrebbe aumentare comunque il capitale in attesa che scada a maggio il contratto di affitto degli impianti in amministrazione controllata per poi andare a una nazionalizzazione temporanea. A questo punto dovrebbe indennizzare ArcelorMittal affinché esca del tutto dal capitale. Oggi il tanto conclamato “stato imprenditore” non ha nessuna struttura ditata di una capacità imprenditoriale. Non lo è nemmeno Invitalia, nonostante le competenze del management, che non è una nuova Iri nonostante quel che si è spesso detto e scritto. Certo, può sempre assumere sul mercato dei manager in gamba, ma con quale mandato? E chi verrebbe ad operare senza soldi e senza chiari obiettivi? Si parla di cercare un nuovo socio, di cordate italiane, circolano i soliti nomi (tra i quali sempre Arvedi), c’è chi evoca il magnate ucraino Rinat Achmetov il patron dell’Azovstal, ma si è impegnato insieme alla Danieli per Piombino (uno stabilimento green dal 2027). Per ora sono solo rumori fuori scena.

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