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Sceneggiata Ilva: ora il governo vuole fare causa a Mittal

Annarita Digiorgio

Fumata nera all'incontro con la multinazionale francoindiana a Palazzo Chigi. Con Meloni si ripete lo stesso film di Conte: il finale è la morte della siderurgia

Si è tenuto l’incontro atteso a Palazzo Chigi tra il governo e Adytha Mittal, ceo della multinazionale francoindiana dell’acciaio. Assente Giorgia Meloni, che invece presenzierà a quello con i balneari. E questo basterebbe a spiegare il declino industriale del paese. Il tavolo Ilva si è chiuso con una rottura tra le parti. La presidenza del Consiglio ha comunicato il rifiuto del socio privato a sottoscrivere l’aumento di capitale sociale, di 320 milioni, utile per concorrere all’aumento al 66 per cento della partecipazione del socio pubblico, unitamente a quanto necessario per garantire la continuità produttiva. ArcelorMittal non riteneva congrua la ricapitalizzazione da 1,3 miliardi richiesta dal governo, e un ulteriore investimento a fronte della perdita della maggioranza, a cui invece non si è mai opposta. La rottura si è delineata con l’incarico del governo a Invitalia di assumere le decisioni conseguenti, attraverso il proprio team legale. Siamo alla minaccia della seconda “causa del secolo”

  

La sceneggiatura ricalca esattamente quella del 2018, quando Luigi Di Maio, allora a capo dei ministeri Lavoro e Sviluppo economico del governo Conte, disse che gli servivano tre mesi per leggere le 25 mila pagine del dossier, per poi concludere che Carlo Calenda aveva firmato con Mittal “il delitto perfetto”. A quel punto costruì l’accordo sindacale a zero esuberi annunciando “siamo arrivati e in tre mesi abbiamo risolto la crisi Ilva”. Poi tolsero lo scudo penale, e l’azienda annunciò il recesso del contratto. Conte minacciò la “causa del secolo”, e con i memorandum inviati al tribunale di Milano partì la trattativa, con cui Conte consentì a Mittal di liberarsi dall’impegno contrattuale che la vincolava a 4 miliardi di investimento (di cui 1,8 effettivamente spesi sul piano ambientale). Il resto ce lo ha messo lo stato, attraverso liquidità e cassa integrazione straordinaria. Mentre Mittal portò via i suoi manager internazionali, e deconsolidò la controllata italiana. Non senza aver prima firmato patti parasociali con l’allora ad di Invitalia, Domenico Arcuri, che ne garantivano potere decisionale e di veto quasi assoluto sulla nuova società. Il nuovo contratto fu festeggiato dal governo e in particolare dai ministri di allora Patuanelli e Gualtieri, insieme a Boccia, Misiani, Emiliano e il premier Conte. Che si precipitò in Ilva la vigilia di Natale per annunciare ai lavoratori, seduto a cavalcioni su un banchetto, accanto all’ad Lucia Morselli e Michele Emiliano, il grande accordo, e la nuova Ilva. 

   
A distanza di quattro anni, durante l’ultima assemblea prima di Natale, Gennaro Oliva delegato della Uilm, il sindacato più rappresentativo in Ilva, ha ammesso: “Sbagliammo nel 2020 a non scioperare contro quell’accordo”. Ma c’era il Covid, e neanche si poteva. Quell’accordo oltre a tutelare il privato, modificava i patti parasociali aprendo la strada alla cassa integrazione e al non reintegro dei 1.600 lavoratori rimasti sotto l’amministrazione straordinaria.Oggi si replica la stessa, identica, sceneggiata. Nell’ultimo incontro del 28 dicembre con i sindacati, i ministri presenti, come Di Maio nel 2018, hanno detto che non avevano ancora letto le carte. Eppure da settimane si riuniva il cda, che rimaneva aperto senza accordo. Come è possibile che quattro ministri si siano presentati ieri al tavolo con Adytha Mittal con la stessa identica proposta che era già stata rifiutata all’interno del cda? Due sono le possibilità: o pensavano che il problema fosse Lucia Morselli, ipotesi smontata dalla linea identica tenuta dal ceo. O stanno bluffando. Il presentimento è che ciò che si sta trattando realmente è la buonuscita di Mittal. Ed esattamente come l’altra volta, quando Conte stralciò il contratto blindato, si accontenterà il privato non dandolo a vedere agli italiani. E quindi si minacciano azioni legali, per poi accordarsi con le procure all’opera. 


Ormai è ufficiale che si va verso la nazionalizzazione dell’Ilva. Fino a due mesi fa il presidente Franco Bernabè parlava di un piano da 5 miliardi solo per i nuovi impianti. Se il piano industriale resta quello da lui delineato, da questo momento deve metterceli tutti lo stato. Insieme a quelli per la cassa integrazione, le materie prime, e la buonuscita di Mittal. Poi ci sono i debiti accumulati, e un solo modo per azzerarli: commissariare l’azienda mettendola per la seconda volta in amministrazione straordinaria, con la prima ancora in corso. Siamo al paradosso: un’amministrazione straordinaria che gestisce gli impianti di un’amministrazione straordinaria. Per la politica sarà un grande successo, per l’Italia è la fine della siderurgia. Non a caso Meloni preferisce andare dai balneari.
 

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