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il vertice

La Cop 28 parte male ma il processo delle Cop non può essere abbandonato

Alberto Clò

Dalla prima Conferenza delle Parti a oggi sono stati raggiunti scarsi risultati e anche Dubai non promette bene. Ma la collaborazione internazionale tra paesi ricchi e poveri è l'unica via per una soluzione alla crisi climatica

La prima Conferenza delle Parti (Cop) nata sulla scia della Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 si tenne a Berlino nel 1995, presieduta da Angela Merkel, allora ministra dell’Ambiente. Da allora alla Cop 28 che inizia oggi a Dubai le emissioni responsabili del surriscaldamento del Pianeta, anziché ridursi, sono aumentate di circa il 60 per cento. Per raggiungere l’obiettivo che molti paesi si sono dati di azzerarle entro metà secolo, dovrebbero verticalmente ridursi di circa il 45 per cento entro il 2030 e del 65 per cento entro il 2035. Cosa impossibile.

La realtà contrasta nettamente con gli obiettivi fissati dalla politica. Questo contrasto tra piano normativo e piano positivo è alla base degli scarsi risultati che sono stati raggiunti nelle passate Cop, ad iniziare dalla Cop 21 del 2015 in cui la generalità dei paesi del mondo sottoscrisse il famoso Accordo di Parigi che fissava l’obiettivo di contenere il riscaldamento entro (almeno) i 2° C.

Che le cose siano andate diversamente, e peggio, di quanto sperato nulla toglie all’importanza politica di quell’Accordo. Non vi potrà mai essere soluzione alla crisi climatica, infatti, se non in un contesto di grande collaborazione internazionale tra paesi ricchi – su cui grava la responsabilità dell’aumento della concentrazione in atmosfera della anidride carbonica – e paesi emergenti e poveri, sui quali gravano le peggiori conseguenze della crisi climatica e che dovranno in futuro aumentare i loro consumi di energia, prevalentemente fossile, per conseguire maggiori livelli di benessere.

A Dubai, dove sono attesi secondo le Nazioni Unite 70 mila delegati e a cui avrebbe dovuto partecipare anche il Papa, si affronteranno temi su cui da troppo tempo va attorcigliandosi il confronto – ad iniziare da quello dei finanziamenti dei paesi avanzati a quelli poveri per renderli in grado di fronteggiare i cambiamenti climatici, con l’istituzione decisa alla Cop 27 del 2022 del fondo “Loss and Damage" – o il nodo cruciale della decarbonizzazione: l’estromissione delle fonti fossili, non limitata solo al carbone ma anche al petrolio e metano, che contribuiscono ancora per oltre l’80 per cento al soddisfacimento dei fabbisogni energetici mondiali.

E’ illusorio pensare che un simile obiettivo possa essere recepito o enfatizzato alla Cop 28 che si tiene in un paese produttore di petrolio sotto la presidenza del ceo della Adnoc, la compagnia nazionale petrolifera degli Emirati Arabi. Un’estromissione che non potrà che avvenire in tempi incompatibili con un azzeramento delle emissioni entro metà secolo ma che potrebbe venire compensata, tema che la Cop di Dubai dovrebbe affrontare, dallo sviluppo di tutte le tecnologie low-carbon non escludendo quella nucleare.

La complessità dei temi da affrontare, resa ancor più tale dalle tensioni geopolitiche tra i principali protagonisti mondiali, ad iniziare da Cina e Stati Uniti, e ora aggravate dalla nuova guerra medio-orientale, porta a ritenere che a Dubai difficilmente potranno essere sottoscritti grandi risultati nel comunicato finale che richiede una unanimità di consensi tra i 197 paesi che vi partecipano. Ma resta il fatto che il processo delle Cop non può essere abbandonato, anche alla luce di una crescente consapevolezza delle popolazioni mondiali sulla inderogabile necessità di fornire risposte alla lotta ai cambiamenti climatici e agli eventi estremi che con sempre maggior frequenza stanno colpendo ogni angolo del mondo. Risposte che sappiano essere pragmatiche, equilibrate, razionali, nei tempi che si richiederanno come necessari.

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