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il vertice

Inizia una Cop 28 in cerca di risposte a un fallimento

Chicco Testa

Emissioni in continua crescita, rinnovabili al palo. Investire più nella ricerca tecnologica e meno in sussidi che illudono sarebbe una buona scelta. Ma la partita si gioca in Asia, Africa e Sudamerica

Chi aprirà i lavori della Cop numero 28, la riunione annuale dedicata alla lotta al cambiamento climatico a cui prendono parte tutti i paesi facenti parte dell’Onu, in programma dal 30 novembre a Dubai, dovrebbe forse esordire con una domanda: “Cari colleghi, come mai arrivati alla ventottesima riunione dobbiamo constatare di avere fallito nel nostro scopo di ridurre le emissioni dei gas climalteranti? Che al contrario di quando auspicato continuano ad aumentare. E dovremmo cercare le risposte giuste”. Un solo dato: durante queste 27 Cop fino ad ora svolte la quantità di emissioni emesse in atmosfera è pari al totale di tutte quelle emesse nei secoli precedenti dalla rivoluzione industriale in poi. E continuano ad aumentare.

Non sarà cosi. Il segretario generale dell’Onu ripeterà un’altra volta che il mondo brucia e che siamo sull’orlo della catastrofe climatica, ma non fornirà nessuna risposta al quesito. Eppure le cose sono relativamente semplici almeno da capire. Le emissioni continuano ad aumentare perché i quattro quinti dell’umanità vivono in condizioni di quasi povertà energetica o comunque di consumi energetici insufficienti e siccome vogliono crescere economicamente per sconfiggere la povertà e acquistare standard minimi di benessere hanno bisogno di energia. Enormi quantità di energia. La prova di tutto questo è la Cina che la povertà la ha (quasi) sconfitta quadruplicando negli ultimi venti anni i suoi consumi energetici, ma raggiungendo insieme il non invidiabile posto di primo emettitore mondiale di gas serra. Almeno in cifra assoluta perché se invece guardiamo i dati pro capite, come si deve fare, ancora una lunga distanza la separa dagli Stati Uniti. La stessa che la separa dal pil pro capite americano. Ma le cose stanno molto peggio per popolazioni immense come quella indiana o quella africana. L’Economist di qualche mese fa titolava “Un africano medio consuma tanta energia elettrica quanto un frigorifero occidentale”. Qualche centinaio di kilowattora all’anno. 

Quindi il segretario generale dell’Onu anziché spargere allarmismo dovrebbe provare a spiegarci come rifornire il resto del mondo, la maggioranza, delle quantità gigantesche di energia di cui avrà bisogno nei prossimi decenni. A meno di non condannarlo a una povertà perpetua. Ma la risposta suonerebbe spiacevole, perché nonostante i progressi fatti le fonti rinnovabili “pure” coprono oggi meno del 5 per cento del totale dell’energia primaria consumata nel mondo e pensare di rifornire, riscaldare, far muovere megalopoli di decine di milioni di abitanti e continenti di miliardi di persone con fonti intermittenti e a bassa densità è velleitario. E infatti il 2022 ha segnato il picco storico nei consumi di carbone (8 miliardi di tonnellate) e in quelli di petrolio (più di 100 milioni di barili al giorno). Oltre che naturalmente il picco storico delle emissioni. E il 2023 si annuncia ancora in aumento.

L’Aie (Agenzia internazionale energia) nel disperato tentativo di addomesticare numeri che raccontano purtroppo una spietata verità prevede, o forse auspica chiamando in aiuto gli dei, che nel corso di questo decennio si raggiunga il picco nei consumi di fossili. Ovviamente negli interessati scenari dell’Opec c’e scritto tutto il contrario, con il consumo di petrolio che continua a salire ancora per molti anni. A parte il fatto che raggiungere il picco non significa niente se i consumi rimangono a questo livello, ma per il suo scenario l’Aie  deve mettere sul piatto numeri che rappresentano desideri più che fatti. Come per esempio che i consumi totali di energia crescano da qui in avanti dello 0,7 per cento all’anno contro una media degli ultimi 10 anni dell’1,5. Una differenza enorme. Che raddoppi l’efficienza, che venga installato un numero monstre di nuova potenza rinnovabile, che si immatricolino centinaia di milioni di auto elettriche.  Quando Birol, il direttore dell’Aie, sostiene che dal 2030, praticamente domani, potrebbero non essere più vendute auto a combustione  mi domando come faccia a non rendersi conto dello stato delle reti elettriche africane, indiane, pakistane, dove i black-out sono quotidiani e come pensa che possano reggere l’impatto di centinai di milioni di veicoli elettrici.  Sempre l’Economist stima che l’adeguamento delle reti elettriche ai nuovi fabbisogni dettati dalla transizione necessiti di investimenti di centinaia di miliardi. Vedremo. Nel frattempo però i consuntivi raccontano storie completamente diverse. I consuntivi non mentono mai. I preventivi quasi sempre, soprattutto se fatti da organismi politici. 

Quindi torniamo alla domanda che dovrebbe farsi il buon Guterres. “Come facciamo a dare energia abbondante, a basso costo e con basse emissioni alla parte energeticamente povera dell’umanità?”.  Purtroppo non esistono riposte semplici. Intanto dovremmo smettere di  illudere il  mondo fissando obbiettivi sempre più irraggiungibili in tempi sempre più stretti, tipo quelli contenuti nel piano energetico italiano sulla cui fattibilità nessuno dotato di buon senso scommette un euro. La transizione che si deve fare sarà un processo secolare da percorrere con realismo. Dobbiamo scommettere su tecnologie “distruptive” capaci di cambiare le regole del gioco. I sistemi di sequestro del carbonio non avanzano  per esempio con i tempi che si vorrebbero, ma siccome dovremo convivere per decenni ancora con i combustibili fossili, questo è l’unico modo per addomesticarli. Qualche investimento in più nella ricerca tecnologica e meno in sussidi che illudono  sarebbe già una buona scelta. Poi convincersi  una volta per tutte che solo l’energia nucleare rappresenta per quantità e continuità l’alternativa al carbone. E ancora le batterie e gli altri sistemi di stoccaggio, la carne coltivata anziché i mega allevamenti, la riforestazione massiccia. Ma è chiaro che il campo da gioco principale non è in Europa e nemmeno negli Usa  che investono cifre enormi per risultati complessivamente modesti perché ormai modesto è il loro ruolo. La partita si gioca in Asia, in Africa, in Sudamerica. Continenti dove cresce invece l’insofferenza per quello che viene considerato una sorta di neocolonialismo ambientale.  “Volete veramente ridurre le emissioni? Investite qui dove ancora si utilizzano tecnologie arretrate anziché nel mondo maturo dell’occidente”. Sarebbe un bel messaggio per l’Onu e anche per una sinistra europea che sembra avere dimenticato come è fatto il mondo. Ma sono piuttosto sicuro dalle premesse che questa 28 COP sarà solo quella che sta fra la n. 27 e la n.29.  Di positivo c’è sicuramente il fatto che tanti paesi si siedano attorno al tavolo in questo momento, fra l’altro in un paese arabo. Sempre che Ucraina e Russia, Israele e Palestina, e quel che di inquietante bolle in pentola ci lascino il tempo e i denari per continuare a occuparci di riscaldamento globale.    

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