LaPresse

Niente paura

Come l'energia nucleare sta cambiando il mondo (c'entra anche Israele)

Carlo Stagnaro

Sempre meglio del carbone, dice Greta: anche il no pregiudiziale degli ambientalisti vacilla di fronte a questa formidabile arma di riduzione delle emissioni. Gli errori del passato, lo stallo attuale, i costi e le prospettive

Quando la Germania, alla fine dell’anno scorso, ha confermato la scelta di spegnere le ultime centrali nucleari, Greta Thunberg ha spiazzato molti attivisti climatici: “Penso sia una cattiva idea”. “E’ favorevole al nucleare?”, le hanno chiesto. “Dipende – ha replicato – se [gli impianti] sono già operativi, penso sarebbe un errore spegnerli e sostituirli col carbone”.  La stessa Thunberg – al pari di molti altri, dai giovani di Ultima Generazione alla maggioranza dei partiti verdi europei – accusa spesso i governi europei di non fare nulla per il clima.

E’ un giudizio ingeneroso: tra il 1990 e il 2021, le emissioni europee di CO2 sono state ridotte di oltre il 27 per cento, con un impegno a tagliarle del 55 per cento entro il 2030 e a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Inoltre, sia su base pro capite, sia in rapporto al pil, le economie europee sono le più pulite tra i paesi avanzati. Questo è vero soprattutto per i paesi che fanno maggior ricorso all’atomo. Due esempi soltanto: il paese che ha decarbonizzato più rapidamente il proprio parco di generazione elettrica è la Francia che, nel volgere di poco tempo, ha portato a circa il 70 per cento la quota dell’atomo. In Finlandia, con l’ingresso in esercizio del reattore nucleare di Olkiluoto 3 all’inizio di quest’anno, le emissioni – letteralmente dal giorno alla notte – sono calate di circa 11 milioni di tonnellate annue di CO2, pari alla quantità di biossido di carbonio generato dall’intero traffico veicolare del paese.

Se c’è un argomento potentissimo a favore del nucleare è proprio il contributo che può dare a combattere il riscaldamento globale. Per questo è incomprensibile l’opposizione pregiudiziale degli ambientalisti, a meno che non la si riconduca a un tic ideologico: la tentazione, cioè, di vedere nel clima lo strumento per abbattere il capitalismo, anziché nel capitalismo lo strumento per salvare il clima. Eppure, se il nucleare ha un passato glorioso, il presente e ancor più il futuro sono deludenti: dei 412 reattori oggi in esercizio nel mondo, per una potenza complessiva di circa 370 gigawatt (GW), quasi il 60 per cento si trova in Europa e Nordamerica. Dei 58 in costruzione la sola Cina ne ospita un terzo, seguita da India, Turchia e Corea del Sud. Europa e Stati Uniti sono praticamente assenti.

I sondaggi di opinione fotografano un crescente interesse delle opinioni pubbliche europee (inclusa l’Italia) per il nucleare. Il timore per il futuro del clima e l’esperienza della crisi energetica del 2022 hanno innescato una riflessione diffusa e ampia. Ma questa riflessione rischia di essere monca se non si va a fondo nelle cause del tramonto del nucleare in Europa. Perché è morto, o quasi, nel Vecchio Continente? E può rinascere? Senza fornire una risposta esauriente a queste domande, chi pensa che l’atomo debba giocare un ruolo nel nostro futuro energetico non può essere credibile. 


Vita

La storia dell’uso civile dell’energia nucleare comincia il 27 giugno 1954 nell’Unione Sovietica di Nikita Krusciov: a Obnisk, un centinaio di chilometri da Mosca, per la prima volta un piccolo reattore da 5 megawatt (MW) immette in rete energia elettrica prodotta dalla fissione dell’atomo di uranio. Il 27 agosto 1956, a Sellafield, nell’Inghilterra nordoccidentale, entra in esercizio la prima centrale nucleare, composta da quattro unità da 60 MW ciascuna. In quel momento, il nucleare pare la risposta a qualsiasi domanda: le fonti Lurisia pubblicizzano “l’acqua più radioattiva del mondo”, l’Unità allega il Pioniere con le storie di Atomino e il presidente della Commissione americana sull’energia atomica, Lewis Strauss, sentenzia che l’energia nucleare diventerà “talmente economica da non doversi dare la pena di misurare i consumi”. La capacità installata, che nel 1954 coincide coi 5 MW di Obnisk, nel 1960 raggiunge i mille megawatt, nel 1970 supera i 17 GW, nel 1980 è di circa 133 GW e nel 1990 balza a 318 GW. 

 

A quel punto la spinta si esaurisce, alternando periodi in cui nuovi reattori vengono collegati alla rete (soprattutto fuori dall’occidente) ad altri in cui le unità che vengono “spente” superano quelle nuove (soprattutto in occidente). Nel 2022 si scende 389 GW a 371 GW (danke schön, Deutschland). Questa parabola, per essere compresa, va collocata nel suo tempo. La fase di massima espansione dell’energia nucleare ha infatti caratteristiche peculiari e irripetibili. La prima, abbastanza ovvia, è legata all’origine militare del nucleare civile: le tecniche per domare l’atomo si affinano contemporaneamente nei laboratori dei fisici russi e in quelli di Chicago, dove Enrico Fermi & Co lavorano sia a quella che diverrà la Chicago Pile-1 (che iniziò la prima reazione controllata il 2 dicembre 1942) sia al Progetto Manhattan per la bomba atomica. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti e la storia del nucleare civile si è completamente divaricata da quella del nucleare militare (con buona pace della saldatura tra ecologisti e pacifisti). Resta importante avere ben presente da dove viene questa tecnologia e quanto essa fosse considerata sensibile. 

Un secondo aspetto è che, soprattutto in Europa e in particolare in Francia, l’exploit del nucleare è figlio del timore innescato dalle crisi petrolifere degli anni Settanta. Il nucleare è visto come lo strumento per emanciparsi dal petrolio (all’epoca il gas era molto meno importante di oggi). Gli shock del 1973 e del 1979 convincono le élites occidentali che i rischi geopolitici derivanti dall’eccessiva dipendenza dai combustibili fossili non possono essere tollerati. Ogni paese reagisce a modo suo ma l’atomo è quasi ovunque parte della risposta. Con il cosiddetto Piano “Messmer”, dal nome dell’allora primo ministro, Parigi ne fa la sua bandiera e nel giro di un paio di decenni diventerà il paese con più nucleare al mondo in proporzione ai consumi, il terzo dopo Stati Uniti e Cina in valore assoluto.

Fino agli anni Ottanta e Novanta, praticamente in tutto il mondo – certamente in Europa e pure, con caratteristiche diverse, negli Stati Uniti – il sistema elettrico era gestito come un monopolio verticalmente integrato (spesso pubblico). Ciò significa che il medesimo soggetto si occupava della generazione di energia elettrica (e dunque della scelta di quali tecnologie impiegare a tal fine), della trasmissione e distribuzione dell’energia, della misura dei consumi e della gestione del rapporto commerciale coi clienti (che all’epoca, non a caso, si chiamavano “utenti”). I prezzi (le tariffe) erano stabiliti sulla base dei costi sostenuti. Non c’era alcun incentivo all’efficienza né alcuna disciplina di mercato: tanto il monopolista spendeva, tanto i consumatori avrebbero dovuto ripagare. 

 

Morte

Questo sistema era destinato a entrare in crisi, per ragioni politiche e pratiche. Il nucleare fu travolto dal cambiamento che si stava mettendo in moto. Il 28 giugno 1982, davanti all’Associazione internazionale degli economisti dell’energia, il segretario per l’Energia del governo britannico, Nigel Lawson, annuncia che “non penso che il ruolo del governo debba essere quello di pianificare la produzione e il consumo di energia… Il nostro ruolo è di creare una cornice all’interno della quale il mercato possa operare nel settore dell’energia minimizzando le distorsioni e assicurando che l’energia sia prodotta e consumata in modo efficiente… Il ruolo del governo non è neppure indurre gli individui a prendere decisioni contro il proprio giudizio o sprecare il denaro pubblico sussidiando investimenti che si ripagherebbero da soli”. Questa svolta radicale nella politica energetica britannica arriva assieme all’indagine sulle imprese statali affidata da Margaret Thatcher alla Monopolies and Mergers Commission (l’autorità antitrust britannica, oggi chiamata Competition and Markets Authority). L’inchiesta documenta un diffuso malcostume, caratterizzato da costi eccessivi e contemporaneamente prezzi insufficienti a garantirne la copertura integrale. 

Questo problema è diffuso e comune tra tutte le imprese pubbliche e riguarda in particolare il settore elettrico, dove il monopolio ha generato il proliferare di cattedrali nel deserto. Uno degli architetti della liberalizzazione nel Regno Unito, l’economista Colin Robinson, ricorda che “nei primi anni Novanta, l’esperienza britannica col nucleare civile era considerata un fiasco totale”. Inizialmente il governo non riesce neppure a vendere le centrali, che saranno privatizzate soltanto nel 1996. Racconta Robinson: “La costruzione delle centrali nucleari in Gran Bretagna (e in molti altri paesi) non fu la conseguenza delle forze del mercato: la fonte nucleare venne promossa e sussidiata dallo stato. I governi di entrambi i partiti avevano politiche energetiche che restringevano fortemente le possibilità di concorrenza tra le fonti di energia e l’azione del governo diede luogo a monopoli – di informazione, nel mercato dei prodotti e nel mercato dei capitali – a detrimento dell’interesse dei consumatori”.

Beninteso, tra il 1982 (anno del discorso di Lawson) e il 1989 (quando il governo Thatcher vara il programma di privatizzazioni del settore elettrico) c’è il 1986, cioè il disastro di Chernobyl. E prima ancora l’incidente di Three Mile Island (1979) aveva innescato un rapido e profondo cambiamento nell’opinione pubblica. E’ lì che l’ambientalismo stringe un patto di ferro con l’antinuclearismo (e il pacifismo). Ed è da lì che prendono le mosse molti dei movimenti antinucleari che si sono battuti, spesso con successo, contro questa tecnologia. E’ curioso che due persone che non potrebbero essere più diverse possano forse condividere, in retrospettiva, il giudizio su quella fase: se Greta Thunberg riconosce l’importanza del nucleare in un mix elettrico decarbonizzato, l’ex deputata verde ed esponente degli Amici della Terra, Rosa Filippini, ha firmato sull’Astrolabio una lunga rivisitazione delle campagne anti-atomo degli anni Settanta e Ottanta. Bottom line: “E’ cambiato il nucleare e siamo cambiati anche noi” (leggetelo: il vostro tempo potrà difficilmente essere speso meglio). 

 

In Italia, caso unico al mondo, il referendum del 1987 innesca l’abbandono immediato del nucleare, con la chiusura anticipata delle centrali esistenti (e non solo la rinuncia a costruirne di nuove). Ma sarebbe ingenuo pensare che dietro il tramonto del nucleare ci fossero e ci siano solo la radicalizzazione dell’opinione pubblica e l’ignavia della politica, che pure ci furono e ci sono. Dopo Three Mile Island, i governi definirono nuovi e più restrittivi standard di sicurezza, anche a carico degli impianti in costruzione: molte centrali furono “abbandonate” per l’impossibilità di sostenere i costi dell’adeguamento (qualcosa di simile accadrà, circa trent’anni dopo, con Fukushima). Dunque sì, la politica è un grosso pezzo della storia: ma non è l’unico sebbene sia il più studiato. 

 

In questo contesto di crescenti oneri regolatori, fu però l’economia a uccidere il nucleare. Lo spiega bene Alberto Clò – certo non sospettabile di anti-nuclearismo – in un pamphlet del 2009, Si fa presto a dire nucleare: “Nei nuovi assetti organizzativi (concorrenziali) e proprietari (privatistici), gli investimenti sono guidati dalla ricerca del profitto, non da finalità extraeconomiche, quali la sicurezza energetica o la riduzione delle emissioni, che un tempo potevano gravare sulle imprese pubbliche che eseguivano gli indirizzi politici delle autorità da cui dipendevano, ma di cui non possono farsi carico imprese che rispondono ai loro azionisti”. Certo: le finalità extraeconomiche di cui parla l’ex ministro dell’Industria non sono scomparse e pertanto vanno in qualche modo valorizzate. E’ quello che si fa con gli incentivi alle rinnovabili, che anzi – pur premiandone la performance ambientale – ne ignorano i tanti costi nascosti, come l’esigenza di realizzare nuove e più costose infrastrutture di rete per convogliare l’energia rinnovabile da dove viene prodotta a dove deve essere consumata. Ma, ancora una volta, questo non è sufficiente a esonerare l’industria nucleare dalle sue responsabilità. La difficoltà del nucleare a reggere la sfida di un mercato competitivo sta nella sua struttura dei costi. Gran parte della spesa per la produzione di energia nucleare è concentrata nell’investimento iniziale. L’investitore deve anticipare quasi tutto il capitale: dal momento della decisione di investimento alla realizzazione dell’impianto (e dunque dei primi ricavi) passeranno molti anni, e altri ancora dovranno trascorrere prima che le entrate siano sufficienti a coprire i costi. A quel punto, e solo a quel punto, l’impianto potrà iniziare a generare utili, cosa che farà per tutta la sua lunga vita (40-60 anni), al termine della quale sorgeranno nuovamente dei costi legati al decommissioning della centrale.

 

Oltre al profilo temporale dei costi, anche l’incertezza sui prezzi futuri mina le prospettive della scommessa nucleare. Poiché il costo medio di generazione dipende in gran parte dall’investimento iniziale, esso viene nella sostanza fissato prima ancora che il primo chilowattora (kWh) sia immesso in rete. Tale costo dovrà poi confrontarsi coi prezzi espressi dal mercato nei decenni successivi: se i prezzi (che dipendono dalle condizioni di domanda e offerta) saranno mediamente superiori ai costi l’impianto sarà in utile, in caso contrario le perdite potrebbero essere immense. Da questo punto di vista il nucleare è simile alle fonti rinnovabili – che pure hanno costi concentrati nella fase iniziale – ma diversa è la scala degli oneri che il singolo investitore deve sostenere, perché un impianto nucleare è molto più grande di uno rinnovabile. Quindi il costo unitario può essere simile, ma quello complessivo ne è un multiplo. Spiega ancora Clò: “Elevatissimi costi di capitale associati a un’elevata incertezza sia dal lato dei costi/tempi di costruzione sia da quello dei ricavi unitari portano gli investitori privati (e i loro finanziatori) a richiedere un sostanziale premio rispetto alle tecnologie alternative… La sostenibilità economica del nucleare è legata a tre ordini di variabili: costi unitari di produzione, funzione in primis dei costi di investimento; prezzi delle fonti concorrenti; prezzi dell’elettricità sui mercati concorrenziali all’ingrosso”.

 

Va da sé che l’investimento in una fonte come il nucleare è tanto più rischioso (e dunque più insostenibile) in paesi caratterizzati da scarsa certezza del diritto. L’Italia, sotto questo punto di vista, è l’inferno per il nucleare: qualunque investitore può vedere che, nel passato, per ben due volte, nel 1987 e nel 2011, il paese ha fatto marcia indietro su questa fonte, in entrambi i casi sulla scia di incidenti drammatici ma impossibili nel contesto italiano (Chernobyl e Fukushima). Se il governo fa sul serio, dovrebbe anzitutto interrogarsi su come rassicurare i possibili investitori contro il rischio di voltafaccia futuri (in bocca al lupo). 

 

Miracoli

Dopo una lunga stagnazione degli investimenti nell’Ue, alcuni paesi hanno avviato la realizzazione di nuovi reattori: la Francia a Flamanville, la Finlandia a Olkiluoto, la Slovacchia a Mochovce. Altri ancora sono programmati. Olkiluoto-3 è entrato in esercizio il 1° maggio di quest’anno dopo un cantiere durato diciassette anni.

In tutti questi casi, il risultato è stato – per usare un eufemismo – disastroso: i tempi e i costi di costruzione si sono rivelati, ex post, immensamente superiori a quanto previsto. Sulla base di tali esperienze, chiunque ritenga necessario inserire il nucleare in una strategia climatica o di sicurezza energetica dovrebbe interrogarsi seriamente sulla sua fattibilità. L’energia atomica è pulita e sicura: la tassonomia europea la qualifica come fonte sostenibile, sulla base di un corposo rapporto del Joint Research Center che sgombra il campo dai pregiudizi sui rischi ambientali o la presunta impossibilità di gestire le scorie (tema a cui è dedicato un libro di Celso Osimani e Ivo Tripputi, di prossima pubblicazione per IBL Libri). Ma i costi, se dobbiamo guardare a quanto sta accadendo nei pochi paesi europei che si sono mossi in questi anni, sono incomparabili con quelli delle fonti alternative. E anche le modalità di finanziamento lo confermano. 
La Gran Bretagna e la Finlandia offrono due prospettive estreme. La centrale di Olkiluoto non gode di alcun supporto pubblico: è stata realizzata grazie a un accordo di lungo termine per l’acquisto di energia tra l’operatore dell’impianto (la società Tvo) e un consorzio di grandi consumatori industriali, che hanno concordato volumi e prezzi di cessione. I compratori hanno fatto un ottimo affare: si sono assicurati il diritto di acquistare l’energia a un prezzo prefissato ma i costi si sono rivelati insostenibili. Solo che, per effetto di un contratto molto favorevole, questi si scaricano interamente sulla società costruttrice (la francese Areva), per la quale l’impianto finlandese è stato un bagno di sangue. Nel Regno Unito, Hinkley Point C sarà reso possibile dall’intervento dello stato: il governo si impegna a garantire un prezzo dell’energia prodotta da quell’impianto di oltre 90 sterline/MWh, più di un terzo al di sopra degli analoghi contratti stipulati con l’eolico. 
Questo confronto va preso con le pinze. Mettere sullo stesso piano i costi di generazione di un impianto nucleare con le fonti rinnovabili è complicato, perché mentre il primo fornisce energia continuativamente per (quasi) ogni ora dell’anno, gli altri sono disponibili solo quando lo consentono gli elementi atmosferici (per esempio la disponibilità di sole o vento). Per effettuare tali comparazioni sono stati sviluppati degli indicatori, quali il cosiddetto costo livellato dell’energia o altri che tengono conto della programmabilità e della prevedibilità della produzione. Essi hanno pro e contro e possono avere delle divergenze ma, sulla base dell’esperienza europea degli ultimi anni, ci sono pochi dubbi: il kWh nucleare costa (in media) più del corrispondente kWh fotovoltaico ed eolico. E’ vero che l’uno è pressoché certo mentre gli altri sono erratici, ma la differenza è sostanziale. Per esempio, l’ultimo aggiornamento del rapporto di Lazard – tra i più severi col nucleare – fissa l’asticella nel range 141-221 dollari/MWh, contro i 24-96 dollari/MWh del grande fotovoltaico e 42-114 dollari/MWh dell’eolico a terra. Altre stime, per esempio dell’Agenzia internazionale dell’energia, sono meno pessimistiche ma il messaggio è simile: in termini medi attualizzati, l’energia nucleare da nuovi impianti sembra costare più di quella rinnovabile.  

Prima di balzare alle conclusioni e dedurne che il gioco non vale la candela, ci sono dei caveat. Intanto, come già ricordato, l’atomo fornisce energia continuativa, mentre le fonti intermittenti sono legate ai fenomeni atmosferici: quando non splende il sole o non soffia il vento – condizione che può verificarsi anche per svariati giorni consecutivi – le case vanno comunque illuminate, gli ospedali alimentati e le fabbriche tenute accese. I sistemi di accumulo, al momento, possono offrire una risposta solo parziale e comunque molto costosa a questi problemi. Inoltre, le rinnovabili non programmabili producono dei costi occulti (dalle reti alle batterie) che, in gran parte, oggi non vengono imputati all’investitore ma alla collettività. Infine, quelli citati sono valori medi, ma i costi effettivi possono dipendere in misura considerevole dalla localizzazione degli impianti: se un sito è poco ventoso o caratterizzato da scarsa insolazione, difficilmente l’energia del vento o del sole potrà soddisfarne il fabbisogno. Se un impianto costa un milione di euro e produce centomila kWh nell’arco della sua vita utile, ogni kWh ha un costo medio di dieci euro; se lo stesso impianto, con lo stesso costo, produce soltanto cinquantamila kWh, ciascuno di essi ha un costo medio di 20 euro. Ecco perché Greta è tiepidamente favorevole al nucleare: capisce bene che, nel contesto tedesco, l’alternativa concreta all’atomo, quanto meno in molte ore dell’anno, non sono le rinnovabili ma il carbone. 

C’è un aspetto ancora più rilevante e preoccupante. Mentre il costo medio livellato del fotovoltaico e dell’eolico ha conosciuto una straordinaria riduzione nel corso degli anni, per l’atomo è vero il contrario. Stando a Lazard, un kWh solare nel 2023 costava un decimo rispetto al 2009; la stessa quantità di energia prodotta dal nucleare costava invece una volta e mezza in più rispetto a quattordici anni prima. Quelle della banca d’affari statunitense sono tra le stime più pessimistiche per l’atomo (e più favorevoli alle rinnovabili): ma proprio per questo chi ritiene che il nucleare possa svolgere un ruolo deve confrontarsi con esse, e non affidarsi a quelle meno conservative.  

A cosa è dovuto questo andamento? Ci sono almeno tre spiegazioni principali. La prima riguarda l’iper regolamentazione. A causa delle preoccupazioni per le conseguenze degli incidenti nucleari e dei potenziali impatti della radioattività, gli stati hanno imposto standard sempre più restrittivi, che hanno determinato ridondanze nella progettazione degli impianti e sistemi di sicurezza sempre più sofisticati. L’anno scorso, nel bel mezzo della peggior crisi energetica dal 1979, circa metà dei reattori francesi sono stati fermati precauzionalmente, mandando i prezzi alle stelle in tutta Europa, a causa della corrosione delle saldature in alcuni circuiti secondari. Nessun altro impianto industriale è soggetto a una tale, maniacale e giusta, ossessione per la sicurezza. Una seconda ragione riguarda il fatto che abbiamo, per così dire, disimparato a costruire reattori nucleari: trent’anni di inattività hanno privato le imprese e i lavoratori di quel tipo di conoscenza che può venire solo dall’esperienza. Peggio ancora, ciò ha scoraggiato gli studenti dal formarsi in questo settore – come ingegneri o come tecnici specializzati – col risultato che oggi l’industria deve fronteggiare una drammatica scarsità di manodopera qualificata. Infine, la tendenza al gigantismo degli impianti ha imposto un disegno delle centrali estremamente complesso, amplificando i costi di monitoraggio, controllo e sicurezza. Queste tre spiegazioni non sono alternative tra di loro: anzi, si rafforzano a vicenda. Ed è da qui che bisogna partire se si vuole prendere sul serio l’impegno di molti governi, tra cui quello italiano, a riaprire il dossier nucleare. Se prendiamo sul serio gli obiettivi di decarbonizzazione, difficilmente si può escludere il nucleare dagli scenari (la stessa Agenzia internazionale dell’energia vi ha dedicato diversi approfondimenti). Ma proprio se si vuole utilizzare l’atomo per risolvere il rebus energetico, bisogna riconoscere gli ostacoli, perché solo così si potranno escogitare delle soluzioni. 

 

Rinascita?

Vi sono ottime ragioni extraeconomiche per cui l’atomo suscita il nostro interesse (come capisce bene Greta). Come le rinnovabili, il nucleare produce energia completamente decarbonizzata ma, diversamente dalle rinnovabili, è in grado di erogare il cosiddetto “baseload”, cioè garantire l’immissione di energia in rete per 24 ore su 24 e (quasi) 365 giorni su 365. Questo è essenziale per garantire il funzionamento delle nostre società, visto che una parte consistente dei nostri consumi rimane pressoché costante nel tempo: il condizionatore lo accendiamo e lo spegniamo, ma il frigorifero, gli ospedali, i sistemi di allarme, i server informatici, le stazioni dei carabinieri e molti stabilimenti industriali hanno un fabbisogno ininterrotto di energia. Ma con le pur pregevoli ragioni extraeconomiche non si chiudono i bilanci. 
 

Che fare? Diversamente da altri paesi, l’Italia è sprovvista di procedure e presidi istituzionali per autorizzare e gestire gli eventuali impianti atomici. Il primo passo, quindi, dovrebbe essere quello di tessere il quadro regolamentare e insediare (o rafforzare, dove già esistenti) le autorità di regolazione. Disegnare un’autorità di sicurezza debole – con risorse umane e finanziarie insufficienti – fu uno degli errori del 2009, che contribuirono a rendere inevitabile l’esito del referendum nel 2011. Il governo dovrebbe dedicarsi interamente a questo, più che ad annunciare improbabili centrali in luoghi e tempi altrettanto improbabili.

 

Senza un contesto giuridico di riferimento il nucleare è impossibile: e l’esperienza con le rinnovabili mostra che superare veti e burocrazia può essere difficilissimo, tanto che il ministro Gilberto Pichetto Fratin si interroga ogni giorno su come raggiungere i target europei. Figuriamoci, allora, come potrebbero andare le cose se ci fosse da localizzare un impianto atomico. Ma, se anche questo problema fosse risolto, resterebbe quello che dei costi. E’ ben possibile che una causa stia nella perdita di esperienza e di capitale umano dei produttori. L’inversione del trend potrà verificarsi se, e solo se, arriveranno nuovi ordinativi. Già gli impianti realizzati o in via di realizzazione in Francia, Gran Bretagna, Finlandia e Slovacchia dovrebbero produrre delle economie di apprendimento: sicché l’esperienza di Olkiluoto, Flamanville e Hinkley Point C (e di Vogtle 3 e 4 negli Stati Uniti, dove costi e tempi sono alle stelle) potrebbe essere messa a frutto nelle centrali programmate in paesi come la Polonia, la Svezia, la Finlandia e ovviamente la Francia. Quest’ultimo paese offre, ancora una volta, un osservatorio privilegiato. Il presidente Emmanuel Macron – eletto al primo mandato con una piattaforma assai tiepida sul nucleare – ha compreso che oggi si trova di fronte a un dilemma politico e pratico. La flotta nucleare francese, che soddisfa più dei due terzi del fabbisogno di energia elettrica, ha un’età media di 37 anni, e addirittura 18 reattori (su 56) hanno più di 40 anni. L’allungamento delle licenze può mitigare la questione della sostituzione di questi impianti (con altri nucleari o no), ma essa rimane ineludibile e prima o poi dovrà trovare una risposta. La novità sta nel fatto che, oltre all’annuncio di reattori tradizionali, il presidente francese ha aperto alla possibilità di sperimentare reattori di piccole dimensioni (i cosiddetti small modular reactors). Questi stanno arrivando proprio in questi anni allo stadio commerciale e costituiscono un tentativo di risposta alle degenerazioni del gigantismo. 

Anche negli Stati Uniti stanno attraendo notevole interesse: e proprio nei giorni scorsi hanno subito una battuta d’arresto, con la cancellazione dell’avveniristico progetto di NuScale in Idaho. Tale progetto aveva una serie di difetti intrinseci tra cui quello, inevitabile, di essere il primo nel suo genere. La modularità è il punto di forza di questi reattori di piccole dimensioni, ma forse l’azienda americana si era spinta troppo in là: come ha scritto Marco Ricotti, “è necessario considerare adeguatamente gli aspetti di economia di scala anche per gli stessi SMR, che non devono essere di taglia troppo piccola: un primo segnale di debolezza del progetto in tal senso è rappresentato dalla continua revisione della taglia del reattore, passata negli anni da 44 a 77 MW, evidentemente alla ricerca di una riduzione del costo specifico, azione che tra l’altro ha costretto a ripercorrere il processo di licenza”. Altri, come l’americana GE, la francese Edf e il consorzio costituito in Belgio da Ansaldo Nucleare, Enea, Raten, Sck Cen e Westinghouse, stanno ricercando o sperimentando reattori di dimensioni maggiori, ancorché contenute, dell’ordine delle poche centinaia di megawatt. C’è anche un ostacolo congiunturale: al pari di ogni altra iniziativa ad alta intensità di capitale, il nucleare soffre l’attuale fase di alti tassi di interesse e rincari delle materie prime. Le ragioni che hanno determinato l’aumento dei costi di NuScale – e dunque l’abbandono del progetto – sono in parte le stesse che stanno facendo barcollare colossi dell’eolico come Siemens Gamesa e Ørsted.

 

Sia come sia, fa bene il governo a tenere aperta la porta a questa tecnologia. Ed è una prova di serietà la scelta di insediare una Piattaforma sul nucleare che coinvolge aziende, istituzioni ed esperti, anche facendo leva sulle competenze ancora esistenti nel nostro paese. E’ importante che essa non svolga una funzione di mera ricognizione tecnologica, ma si interroghi anche sulle modalità pratiche con cui il nucleare in Italia potrebbe essere reso compatibile con i vincoli di bilancio. Per questo, la discussione sul nucleare non dovrebbe essere percepita come un mero tema ambientale, ma assumere una piena dimensione industriale ed economica. Insomma: la partita dovrebbe giocarsi tanto sulla Colombo, al ministero dell’Ambiente, quanto a Via XX Settembre, sulla scrivania di Giancarlo Giorgetti. 
Sono due le vie possibili. Si potrebbe imitare quanto si sta già facendo per le rinnovabili. Queste godono di vari strumenti di supporto, in particolare i cosiddetti contratti alle differenze (cfd). Si tratta di un meccanismo attraverso il quale viene individuato un prezzo di riferimento: se i prezzi di mercato sono inferiori a tale livello, l’impianto incentivato riceve la differenza; se invece i prezzi di mercato sono superiori, esso riversa il surplus al sistema. In questo modo, i produttori di energia rinnovabile possono godere su un flusso di ricavi certo, sottratto alla volatilità dei mercati, e ottenere più facilmente i finanziamenti bancari necessari. La proposta di revisione delle regole sul mercato elettrico (avanzata dalla Commissione e approvata dal Consiglio Ue ma non ancora dal Parlamento) estende questo meccanismo al nucleare, seguendo del resto la strada già imboccata da Londra per Hinkley Point C. Il sistema dei cfd ha molti limiti e controindicazioni, che non è il caso di approfondire in questa sede: ciò che conta è che, se viene ammesso per le rinnovabili, non si capisce perché non debba essere utilizzato per altre tecnologie low-carbon come l’atomo. Ma per renderlo socialmente accettabile bisogna che il livello del supporto sia paragonabile (a parità di servizio offerto e, dunque, tenendo anche conto della continuità della produzione): non sarebbe comprensibile fare altrimenti. Quindi il disegno si tiene se, e nella misura in cui, le misure pubbliche di supporto premiano il risultato (la riduzione delle emissioni) e non il mezzo (rinnovabili o nucleare). 

 

Tuttavia, c’è una strada per sviluppare il nucleare anche senza agevolazioni pubbliche, cosa che sgombrerebbe il campo da almeno una parte delle contestazioni. Il nucleare offre energia decarbonizzata quasi ininterrottamente nel corso del tempo, cioè esattamente ciò di cui hanno bisogno le grandi imprese che, pur consumando grandi volumi di elettricità, sono messe sotto pressione dagli investitori (e dal costo della CO2) per ridurre la propria impronta carbonica. E’ stato proprio questo il motore dell’esperimento finlandese: Tvo ha realizzato il reattore appena entrato in esercizio grazie a un accordo di lungo termine con un consorzio di imprese energivore; e anche NuScale puntava a un modello simile, salvo che non è riuscita a trovare abbastanza sottoscrittori (aveva fissato l’obiettivo di coprire almeno l’80 per cento della produzione futura con impegni a ritirare l’energia, ma non ha raggiunto il 25 per cento). Nel nostro paese, Federacciai ha avviato uno studio di fattibilità per un accordo di questo tipo che ha come controparte un nuovo reattore da realizzare presso il sito di Krško in Slovenia. Saranno i numeri a dire se ne vale la pena e gli esiti di questa indagine sono molto più importanti, per il futuro del nucleare in Italia ed Europa, delle dichiarazioni dei politici, simpatizzanti o antipatizzanti che siano. 

Viene da chiedersi, semmai, perché i siderurgici italiani vadano a cercare il nucleare all’estero quando potrebbero averlo in Italia. La risposta è che, oggi, in Italia non possono averlo. Il governo può sistemare tutte le tessere del puzzle e creare le condizioni in cui tale investimento è possibile – e sarebbe già un risultato straordinario se fosse raggiunto entro la fine della legislatura. Ma la decisione concreta, se investire davvero oppure no in questa tecnologia nel nostro paese, dipenderà in ultima analisi dalla percezione di affidabilità delle istituzioni italiane (e dunque anche dalla volatilità dell’opinione pubblica) e dalla capacità dell’industria di rendere i costi del nucleare compatibili con il mercato. A nessuna di queste domande è possibile rispondere in questo momento: chi ostenta certezze, inganna. Non sappiamo se davvero il nucleare potrà essere un pezzo della nostra strategia climatica. Ma non possiamo escluderlo. Privarci di una opportunità nel nome di un pregiudizio è un errore che abbiamo già commesso una volta. 

 

PS Questo articolo è dedicato alla memoria di Umberto Minopoli, che non sarebbe stato d’accordo su molte cose e proprio perché non sarebbe stato d’accordo (brutto testone, mi manchi).
 

Di più su questi argomenti: