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L'analisi

Due mesi  per il nuovo Patto di stabilità o tornano le vecchie regole. E per l'Italia sarebbe meglio

Lorenzo Bini Smaghi

Per quei paesi con un debito alto come il nostro risanare le casse dello stato non dipenderà dalla riforma del Patto di stabilità e crescita. Anzi, ripristinare le regole fiscali precedenti potrebbe perfino rivelarsi più opportuno

Mancano oramai meno due mesi per trovare un accordo sulla riforma del Patto di stabilità e crescita. Altrimenti, si torna alle vecchie regole. Un tale scenario rappresenterebbe, per alcuni, un disastro. Perderebbero credibilità le istituzioni comunitarie, a cominciare dalla Commissione europea che aveva predisposto lo scorso anno uno schema di riforma dell’intera governance europea. Gli stessi governi avrebbero difficoltà a spiegare perché il negoziato è fallito, dopo aver criticato aspramente le vecchie regole fiscali europee. Vale la pena ricordare l’articolo di Mario Draghi e Emmanuel Macron pubblicato il 23 dicembre 2021 sul Financial Times, nel quale si sottolineava che “già prima della pandemia le regole fiscali vigenti avevano bisogno di essere riformate. Sono poco chiare e troppo complesse. Vincolano le azioni dei governi durante le crisi e costringono la politica monetaria. Non creano incentivi per dare precedenza alle spese necessarie per il nostro futuro e per la nostra sovranità, inclusi gli investimenti”.
Eppure, se si esaminano con attenzione le proposte rimaste sul tavolo, c’è da chiedersi se il ritorno alle vecchie regole, con qualche modifica mirata, non possa essere a questo punto la soluzione migliore, soprattutto per l’Italia. La proposta di riforma fatta circa un anno fa dalla Commissione europea, pur rivista nella primavera di quest’anno, incontra molte critiche, sia nella sostanza sia nell’applicazione pratica. Alcuni paesi – come la Germania – ritengono che l’approccio sia troppo generico e manchi di un riferimento quantitativo, in particolare per la riduzione del debito pubblico. Altri considerano che la procedura attribuisca poteri eccessivi alla Commissione europea, riducendo di fatto le competenze dei governi e dei parlamenti nazionali in materia di bilancio. I tentativi di mediazione non hanno finora consentito di colmare il divario tra le varie posizioni e si paventa il rischio di un pastrocchio, magari a spese di paesi, come il nostro, che hanno una situazione molto diversa dagli altri, in particolare per quel che riguarda il livello del debito pubblico. Non sarebbe peraltro la prima volta.


Badando alla sostanza, ci sono vari motivi per ritenere che il vecchio sistema sia, in fin dei conti, migliore delle proposte di riforma attualmente in discussione. Il primo motivo è la trasparenza. Nel sistema in vigore fino alla pandemia, tutti i paesi erano a conoscenza, al momento della preparazione delle rispettive leggi di bilancio, dell’aggiustamento da realizzare, in funzione del rispettivo livello del debito e dell’attività economica. Per l’Italia, l’aggiustamento annuo è pari allo 0,5 per cento del Prodotto lordo, in termini strutturali – ossia al netto degli effetti del ciclo economico sulle entrate e sulle spese pubbliche. La Nadef presentata dal governo nel settembre di quest’anno rispetta appieno tale requisito. Al contrario, la proposta di riforma non consente di identificare in modo chiaro e trasparente l’aggiustamento che ciascun paese dovrà mettere in atto. L’unica cosa certa è che i paesi a basso debito, inferiore a 90 per cento del prodotto lordo, non avranno più vincoli (eccetto il 3 per cento del deficit pubblico rispetto al Pil). Per i paesi a debito elevato, invece, la Commissione europea comunicherà una traiettoria tecnica di aggiustamento, calcolata in base ad un sistema di equazioni e di previsioni per i successivi 4-7 anni, che avrà come obiettivo di “porre il debito pubblico su un percorso di riduzione plausibile e di rimanere su livelli prudenti”. Non è dato ad oggi sapere cosa si intenda per “riduzione plausibile” né quale sia il “livello prudente” del debito da raggiungere. La Commissione europea intende chiarirlo solo dopo che la riforma sarà approvata. In altre parole, si chiede ai paesi di approvare la riforma a scatola chiusa, senza la possibilità di capire in modo preciso cosa comporta per l’aggiustamento delle rispettive finanze pubbliche. Non c’è da sorprendersi che, su queste basi, il negoziato sia in stallo.

Il secondo motivo è la minor flessibilità del nuovo impianto. È previsto, in effetti, che i paesi con debito elevato adottino dei programmi di contenimento della spesa pubblica per un periodo di 4-7 anni, senza la possibilità di fare modifiche, eccetto in casi estremi come un cambio di governo. L’obiettivo, in teoria comprensibile, è quello di evitare continui negoziati tra i governi nazionali e la Commissione europea per ottenere spazi di manovra aggiuntivi rispetto agli impegni precedentemente concordati. Secondo alcuni osservatori, come l’European Fiscal Board, il vecchio sistema ha concesso troppi margini di flessibilità, in particolare all’Italia, nel periodo di crescita favorevole. Tuttavia, con le nuove regole si passerebbe all’eccesso opposto, ossia quello di essere troppo rigide, il che accentuerebbe la pro-ciclicità della politica di bilancio – ossia la tendenza ad essere troppo restrittiva nelle fasi di bassa crescita e troppo espansive nelle fasi di ripresa economica. Il terzo motivo per cui le nuove regole rischiano di peggiorare la situazione riguarda la capacità dei singoli governi di interagire con le istituzioni europee per tener conto delle specificità nazionali. In teoria, il nuovo sistema dovrebbe aumentare la cosiddetta titolarità (in inglese “ownership”) nazionale, perché i governi nazionali possono avanzare proposte alternative alla “traiettoria tecnica” di riduzione del debito definita dalla Commissione europea. Nella realtà, sarà praticamente impossibile per un governo deviare dalle raccomandazioni pubbliche della Commissione, per la natura sensibile che il debito pubblico assume, in particolare per i mercati finanziari. Una divergenza di vedute tra il paese e la Commissione europea sulla sostenibilità del debito pubblico rischia di alimentare preoccupazioni presso gli investitori e far salire il premio di rischio sui titoli di stato.

Un ultimo aspetto del paragone tra vecchie e nuove regole riguarda l’intensità dell’aggiustamento fiscale che i paesi ad alto debito, come l’Italia, dovranno fare nei prossimi anni. Il confronto è molto difficile perché, come indicato sopra, non si sa ancora come le istituzioni comunitarie applicheranno la riforma, dopo che sarà adottata. Alcuni studi, come quello del Think Tank Bruegel (“A quantitative evaluation of the European Commission’s fiscal governance proposal”, 18 settembre 2023) hanno provato a fare delle stime, in base ad ipotesi su come la Commissione europea potrebbe interpretare i concetti di “riduzione plausibile” e di livello “prudente” del debito. I risultati sono tuttavia soggetti a troppa incertezza. In realtà, per un paese ad alto debito come l’Italia, il risanamento delle finanze pubbliche che dovrà essere realizzato nei prossimi anni non dipenderà dal tipo di regole europee, vecchie o nuove. Per mettere il debito su un sentiero sostenibile, il disavanzo pubblico dovrà essere ridotto in modo drastico. La stessa Nadef evidenzia l’obiettivo di passare da un deficit di bilancio primario (ossia al netto della spesa pubblica) del -0,2 per cento nel 2024 ad un surplus dell’1,6 per cento nel 2026 e di proseguire lo sforzo negli anni successivi fino oltre il 3 per cento. Si tratta di un aggiustamento senza precedenti. Basta ricordare che il surplus primario raggiunto dal governo Monti nel 2012 era pari al 2 per cento del Pil. 
Data l’intensità del risanamento, le vecchie regole di bilancio appaiono comunque preferibili, da vari punti di vista. Sono più facili da spiegare e uguali per tutti i paesi, dunque anche più accettabili politicamente. Sono meno rigide e già rodate. Il rischio di commettere errori nella loro applicazione è inferiore rispetto a quello di farne con regole nuove e mai applicate. Se proprio qualcosa si deve cambiare nelle vecchie regole, si possono eliminare le norme che non sono mai state usate, come la riduzione normativa del livello del debito pubblico (rispetto al Pil) di 1/20 l’eccesso rispetto al 60 per cento. A questo punto del negoziato, per un paese ad alto rischio è meglio evitare di assumerne altri.