La manovra

Il mistero del taglio del cuneo contributivo, due o cinque fasce?

Luciano Capone e Leonzio Rizzo

Il Mef cambia retroattivamente il comunicato stampa sulla legge di Bilancio del 16 ottobre: la decontribuzione non è più di 7 e 6 punti ma prevede un decalge da 7 a 3 punti. L'intento è lodevole, eliminare lo "scalone" che scatta alla soglia di 35 mila euro di reddito, ma la riforma è pasticciata

In Italia funziona così: prima il Consiglio dei ministri approva i decreti e poi il governo li scrive. Non fa eccezione la legge di Bilancio. Nella conferenza stampa del 16 ottobre la premier Giorgia Meloni, come peraltro riportavano i comunicati stampa di Palazzo Chigi e del Mef, annunciava il provvedimento più importante: la conferma per il 2024 del “taglio del cuneo contributivo, di 6 punti percentuali fino a 35 mila e di 7 punti fino a 25 mila euro”. Una misura da 10 miliardi di euro destinata a 14 milioni di lavoratori.

 

Nel frattempo, però, le cose sono cambiate tanto da far modificare retroattivamente il comunicato stampa del Mef. Il taglio del cuneo contributivo non sarà uguale a quello di fine 2023, ma sarà così rimodulato: “7 punti percentuali fino a 15 mila di retribuzione; 6 per cento tra 15 mila e 28 mila; 5 per cento tra 28 e 30 mila; 4 per cento tra 30 mila e 32 mila; 3 per cento tra 32 mila e 35 mila”. Così recita il nuovo comunicato stampa del Mef del 16 ottobre nella versione modificata dopo una settimana. Non più due fasce, quindi, ma cinque fasce con decontribuzione decrescente fino alla soglia di 35 mila euro. Resta da chiarire come la nuova versione, che prevede un décalage a partire da 15 mila euro di reddito, possa costare sempre 10 miliardi di euro, come quando lo sgravio era più ampio: ora solo le fasce di reddito 0-15 mila euro e 25-28 mila euro manterranno la stessa decontribuzione, mentre per tutte le altre sarà inferiore (si arriva a 3 punti in meno nella fascia 32-35 mila euro).

Ma al di là delle questioni contabili, c’è da comprendere le motivazioni di questa rimodulazione. Molto probabilmente, la ragione è quella di eliminare lo “scalone” di 6 punti che scattava oltre i 35 mila euro di reddito, foriero di forti distorsioni sull’offerta di lavoro. Come segnalato in due articoli sul Foglio (12 luglio e 27 luglio 2023), quel salto così brusco al superamento della soglia provocava un’impennata dell’aliquota marginale e un forte calo del reddito disponibile: in pratica, guadagnare un solo euro in più (35.001 euro) avrebbe fatto perdere tutta la decontribuzione, ovvero migliaia di euro all’anno. E rendere strutturale questo meccanismo avrebbe prodotto forti distorsioni soprattutto in un periodo di alta inflazione e di rinnovi contrattuali.

 

Il governo decide di modificare questa stortura sostituendo allo “scalone” di 6 punti in prossimità del limite di 35 mila euro con una serie di “scalini” a partire dai 15 mila euro di reddito in modo da lasciarne uno da 3 punti percentuali – la metà rispetto a prima. Questo provvedimento preso in extremis rivela la debolezza teorica insita nell’idea di sostenere il potere d’acquisto dei redditi dei lavoratori dipendenti caricando sulla fiscalità generale una parte dei contributi pagati da alcune fasce di reddito.

 

Se si vuole diminuire il cuneo fiscale senza creare incorrere in tali criticità bisogna invece agire sull’Irpef. E in parte il governo lo ha fatto, creando con il cosidetto “primo modulo” della riforma fiscale uno scaglione unico fino a 28 mila euro a cui si applica l’aliquota più bassa del 23 per cento, riducendo così di 2 punti le tasse sopra i 15 mila euro (costo 4,3 miliardi). La motivazione di questa misura annunciata dal viceministro delle Finanze, Maurizio Leo, era però quella di sterilizzare parte dell’incremento dell’Irpef (altra distorsione) dovuta alla vecchia versione del taglio dei contributi sociali di 6 e 7 punti che fa aumentare la base imponibile dell’imposta sui redditi.

I circa 14 miliardi che servono a finanziare lo sgravio contributivo e la mini riforma fiscale si sarebbero potuti utilizzare per abbassare di più le aliquote, magari fino a 35 mila euro, sterilizzando  – come fatto dal governo nella riforma proposta – l’effetto sui redditi oltre 50 mila euro con un abbattimento delle detrazioni pari alla riduzione di imposta che deriva dal taglio delle aliquote. La sterilizzazione attraverso le  detrazioni è anche un modo equo ed efficace per cominciare a tagliare le spese fiscali, le famose tax expenditure, che sono tra l’altro in maggioranza riconducibili ai redditi medio-alti.

Non si può tuttavia non notare come questa “riforma” venga finanziata interamente in deficit e solo per un anno. Nella Nadef non sono previste risorse che finanzino la riduzione di pressione fiscale oltre il 2024. Affinché sia una vera riforma fiscale si deve partire ogni anno da 14 miliardi di deficit e quindi debito in più. Come si può evitare questa ipoteca?

 

Una strada, a parità di pressione fiscale, è una ricomposizione del gettito. Se si chiede meno al lavoro dipendente, si potrebbe chiedere di più (con adeguati controlli) al lavoro autonomo, che in Italia è attualmente la maggiore fonte di evasione con più di 32 miliardi a cui corrisponde una perdita di gettito del 70 per cento (dati Mef) e che ha per giunta regimi agevolati come la flat tax. Si potrebbe dirottare il prelievo sulle rendite finanziarie tassate al 26 per cento, sulle rendite da immobili a cui si applica il 21 per cento, perparlare dei titoli di stato tassati al 12,5 per cento. Ma questa è una versione un po’ di sinistra. L’alternativa, soprattutto per un governo di centrodestra, è quella di ridurre o contenere una spesa pubblica che supera i 1.000 miliardi di euro.  Ma questo governo non sembra intenzionato a perseguire nessuna delle due strade.

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