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tutto a piazza colonna

Altro che autonomia, Fitto e Palazzo Chigi accentrano tutto. Pnrr e non solo

Marco Leonardi

Il disegno centralista c’è ed è anche comprensibile per un governo che vorrebbe durare 5 anni. Viene solo da pensare che è esattamente tutto il contrario della promessa di autonomia differenziata

Questa settimana il governo ha fatto una parziale, e forse inevitabile, retromarcia sui tagli Pnrr ai comuni. Pur tuttavia, alla faccia di tutte le promesse sull’autonomia differenziata, si conferma il governo più centralista da 20 anni a questa parte: tutte le azioni del ministro Fitto sono dirette alla centralizzazione della governance e dei finanziamenti. Sia sul tema assai delicato del Pnrr sia per la gestione dei fondi di coesione nazionali ed europei, fino ad arrivare alla Zes unica del Mezzogiorno e alla strategia per lo sviluppo delle aree interne (le aree periferiche del paese dove vivono milioni di persone).

E’ chiaro che qualche ritardo fosse insito nel Pnrr e che dei cambiamenti andavano fatti ma la proposta di revisione che, dopo un anno di governo Meloni è ben lontana dall’essere approvata, sta sicuramente provocando lunghissimi ritardi: le amministrazioni aspettano il piano definitivo prima di firmare gli atti. L’altra ragione del ritardo è stata la creazione ex novo della struttura centralizzata a Chigi di 80 persone che esautorano e deresponsabilizzano le amministrazioni titolari dei progetti. Contemporaneamente è stato cancellato il tavolo del partenariato che se non altro faceva un’opera preziosa di informazione per le parti sociali e gli enti locali che ricevevano informazioni periodiche e puntuali dai singoli ministri. Ora l’informazione è centralizzata pure quella, ma soprattutto è totalmente assente nel merito dei singoli progetti. Nella revisione del piano si tolgono 13 miliardi ai comuni per spostarli su opere del Repower Eu controllabili dalla cabina di regia di Chigi. Mentre per i 6 miliardi di piccole opere dei comuni il Pnrr poteva essere scomodo per la rendicontazione, per i restanti 7 miliardi tra piani integrati urbani e rigenerazione urbana è imperdonabile aver rinunciato al Pnrr con tutte le sue semplificazioni normative e i suoi vincoli di tempo che potevano davvero migliorare strutturalmente le capacità di investimento dei comuni. I piani urbani integrati sono in mano a 14 città metropolitane che potevano essere controllate una a una, molto spesso la spesa è già in essere grazie ad accordi quadro con Invitalia che ha indetto le gare. Per la rigenerazione urbana gli importi sono piccoli e facilmente spendibili. La verità è che le ragioni del taglio sono politiche, ai danni dei comuni e del ministero dell’Interno che è più debole perché tecnico. 

A parte che ci sono temi normativi non banali (se un comune ha assunto con regole Pnrr per fare un progetto Pnrr, adesso che fa?) anche la sostituzione con i fondi nazionali non è affatto semplice perché i tagli sul Pnrr non sono necessariamente coerenti con l’assegnazione 80 per cento sud e 20 per cento nord del fondi di coesione. E soprattutto perché gran parte di quei fondi devono essere allocati attraverso le regioni che finora si sono sentite escluse dal Pnrr e che difficilmente vanno d’accordo con i comuni che, a loro volta, non hanno mai gradito l’intermediazione regionale dei fondi. 

E qui veniamo al tema dei fondi di coesione. Il governo ha assorbito l’agenzia della coesione che agiva sui territori nel dipartimento di Chigi. Ma soprattutto, nel dl Sud è previsto che l’allocazione dei fondi avvenga attraverso accordi bilaterali tra Fitto e le singole regioni, si prova quindi a marginalizzare tutti gli altri ministeri e a spaccare il fronte delle regioni e della loro conferenza che concordava una allocazione complessiva e congiunta delle risorse. Un’iniziativa di centralizzazione a danno delle regioni che attendono da più di un anno la programmazione 2021-27. La scusa sarebbe che le regioni spendono solo il 30 per cento dei fondi di coesione, peccato però che i ministeri non sono da meno, anche loro spendono il 30 per cento.

Infine la Zes unica del Mezzogiorno istituisce una struttura di 50 persone a Chigi per dare autorizzazioni uniche su tutto il territorio del sud Italia per investimenti produttivi garantendo generosi crediti di imposta. Le regioni e i comuni sono tagliati fuori ma se le autorizzazioni uniche da Roma funzionano – ed è un grande se – è potenzialmente un vantaggio. 

La strategia delle aree interne cambia così: dopo che tutte le regioni  hanno già firmato gli accordi di partenariato per la distribuzione delle risorse 2021-27, con il dl Sud, contrordine, il governo accentra tutto in una nuova cabina di regia che deve prima approvare un piano nazionale delle aree interne. Si temono tentativi di condizionamento dell’allocazione delle risorse europee finora in capo alle regioni.

In conclusione, per ora abbiamo un ritardo accumulato sul Pnrr e due nuove strutture con ben più di 100 nuove assunzioni a Chigi, un ministro del Tesoro che non ha mai proferito parola sul Pnrr e un primo ministro che ormai come un disco rotto dice solo che “spenderemo tutti i soldi”. Ma il disegno centralista c’è ed è anche comprensibile per un governo che vorrebbe durare 5 anni. Viene solo da pensare che è esattamente tutto il contrario della promessa di autonomia differenziata e che sulla gestione Pnrr faticheranno assai a mettere d’accordo regioni e comuni, cosa che farà perdere ulteriore tempo. In questo quadro sembra evidente che l’opposizione di merito più efficace al governo venga dai presidenti di regione e dai sindaci.

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