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la sentenza

L'eterno ritorno dei riders: Uber Eats dovrà revocare quattromila licenziamenti

Francesco Bercic

L'azienda ha lasciato il mercato italiano a giugno licenziando i suoi fattorini. Ora il tribunale di Milano dice che la pratica è "illegittima" e i lavoratori "subordinati". Il giuslavorista Martelloni: "Le leggi ci sono ma non sempre sono applicate"

La portata della notizia è anzi tutto nei numeri. Sono circa 4 mila i rider che giovedì, con un decreto emanato dal tribunale di Milano, hanno scoperto che il loro licenziamento da parte di Uber Eats, avvenuto lo scorso giugno tramite l’invio di un messaggio, è da considerare “illegittimo”. Una decisione, quella del tribunale, motivata dal riconoscimento ai rider dello statuto di lavoratori subordinati, appurato dopo aver preso in esame la documentazione prodotta dalle parti. Pertanto, Uber Eats – che ha deciso di lasciareil mercato italiano lo scorso giugno – avrebbe dovuto consultare le organizzazioni sindacali prima di sciogliere i contratti, come previsto nei casi di delocalizzazione. Una valutazione “assolutamente condivisibile”, dice al Foglio Federico Martelloni, giuslavorista e docente all’Università di Bologna. “L’orientamento della giurisprudenza è pacifico: se è stato riconosciuto un comportamento antisindacale, questo in quanto tale va rimosso”. Proprio qui sta il carattere “storico” della vicenda: si dovrà infatti ripristinare la situazione precedente ai licenziamenti, lo status quo ante. Di conseguenza, Uber Eats – che ha già fatto ricorso – dovrà adesso avviare un confronto con i sindacati nonché le procedure di licenziamento collettivo.

 

Ma il decreto ha anche e soprattutto riportato in luce una questione che si ripresenta a intermittenza nel dibattito sul lavoro dei rider: se questi siano cioè da considerare come lavoratori dipendenti o autonomi. Martelloni non ha dubbi: “È chiaro che siano dipendenti. Qualunque rider sa di poter esercitare una libertà, ma l’effetto sarebbe non percepire più il reddito. A prescindere però dai margini di autonomia, o dal nome che attribuiamo loro, ciò che conta è che i rider siano riconosciuti come soggetti bisognosi di tutela”. Da questo punto di vista, i tentativi di una definitiva regolamentazione del lavoro dei rider sono stati numerosi negli ultimi anni, a partire dal governo gialloverde e dalla proposta che aveva visto protagonista Luigi Di Maio. Eppure, spiega sempre Martelloni, “nel nostro sistema giuridico non c’è più un vuoto normativo a riguardo. Il diritto del lavoro ha allargato il suo raggio d’azione con il Jobs Act, poi modificato nel 2019 grazie proprio alle vertenze dei rider”.

 

Se dunque non è un problema di leggi, perché oggi risulta ancora così difficile tutelare il lavoro dei rider? “Il fatto che esista una regola giuridica non implica che il sistema sociale si adegui ad essa: le multinazionali, nella fattispecie, hanno propri standard di comportamento che spesso non si conformano alle giurisdizioni nazionali”. Il punto diventa allora garantire il rispetto delle normative vigenti. In questo senso, il panorama italiano risulta particolarmente frammentato: al modello “virtuoso”, secondo Martelloni, di Just Eat – che ha riconosciuto ai suoi fattorini lo status di dipendenti – si contrappongono casi come quello che ha coinvolto, appunto, Uber Eats.

 

Non solo. Anche a livello europeo, ogni paese sembra procedere in direzioni diverse. A maggior ragione la proposta presentata lo scorso giugno dal Consiglio europeo può rappresentare un passo importante verso una regolamentazione più omogenea del settore. I ministri del lavoro dell’Ue hanno individuato sette parametri, soddisfatti tre dei quali i rider sono da considerare come lavoratori dipendenti. Inoltre, la proposta inviata al Parlamento di Strasburgo “cerca di proteggere i lavoratori dalle nuove forme di subordinazione, che non sono più quelle di una volta”, spiega sempre Martelloni. Un tentativo insomma di rimettersi al passo con i tempi, scongiurando il ritorno di episodi come quello di quest’estate.

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