Lo scaffale di tria

Ahi, la competitività. Un vecchio libro di Paul Krugman sul falso mito dell'economia globale

Giovanni Tria

In Pop Internationalism, il Nobel smonta la retorica basata sull’idea che ogni nazione è come una grande azienda che compete nel mercato globale. Un'ossessione pericolosa, tornata di moda, che slitta verso protezionismo e guerre commerciali

A volte, quando ci si trova perplessi di fronte a tesi di moda vendute a piene mani dagli opinion leader di mezzo mondo, e anche da economisti che questi opinion leader vogliono compiacere, è utile concedersi un distacco temporale, nel senso di andare a rileggere vecchi libri di qualità che qualcosa ci hanno lasciato nella nostra formazione intellettuale. È il caso di un libro di Paul Krugman, economista americano vincitore del premio Nobel nel 2008 per i suoi studi sul commercio internazionale e la geografia economica. Il libro, che raccoglie alcuni articoli, è pubblicato nel 1996 dal MIT Press con il titolo Pop Internationalism e in italiano nel 1997 con il titolo più descrittivo Un’ossessione pericolosa. Il falso mito dell’economia globale (Etas Libri).

 

Quale sia la pericolosa ossessione, come spiegato nella parte prima del libro dal titolo significativo “Un mondo a somma zero?”, è la competitività. La competitività di cui si parla non è quella tra imprese ma la retorica della competitività nazionale basata sull’idea che ogni nazione è come una grande azienda che compete nel mercato globale. “Persone che ritengono di avere una preparazione sofisticata sull’argomento danno per scontato che il problema economico di ogni nazione moderna sia essenzialmente quello della competizione sui mercati mondiali – che gli Stati Uniti e il Giappone siano in concorrenza allo stesso modo in cui Coca-Cola compete con Pepsi – e non si rendano minimamente conto che è possibile contestare essenzialmente questa affermazione”. I paesi non competono tra loro come le imprese, perché (continuiamo la citazione) “i maggiori paesi industriali, se vendono prodotti in concorrenza tra loro, sono anche reciprocamente i principali mercati di esportazione e i principali fornitori di utili importazioni. Se l’economia europea va bene ciò non è necessariamente a spese degli Stati Uniti”.

   

Naturalmente si tratta di concetti elementari, come è elementare il concetto sostenuto dal libro che la base del benessere di una nazione è la crescita della produttività e non la competizione sui mercati globali. Eppure, era necessario spiegarli al tempo in cui furono scritti gli articoli, peraltro destinati a un pubblico non accademico, in particolare quello citato (1993), quando il temibile concorrente che lanciava una sfida allora da molti definita epocale era il Giappone (Testa a testa. Usa, Europa, Giappone: la battaglia per la supremazia economica nel mondo, titolava un libro di L. C. Thurow del 1992). Krugman spiegava che il benessere delle nazioni dipende essenzialmente dalla produttività non dalla competitività internazionale. Qualcuno dirà che sono passati trent’anni, che la globalizzazione era diversa da come la conosciamo oggi e, soprattutto, che la Cina non era ancora competitiva sul piano della tecnologia avanzata. Ma gli errori concettuali denunciati da Krugman sono oggi gli stessi e pervasivi, basta leggere i discorsi in sede europea e le argomentazioni degli esperti di sicurezza nazionale.

   

Un “mondo a somma zero”, di cui parla in modo interrogativo il libro di cui discutiamo in queste righe, è appunto quello concepito oggi da alcuni esperti di politica estera e da consiglieri di sicurezza nazionale che, come ad esempio sostiene Jack Sullivan, attuale consigliere per la sicurezza nazionale del presidente degli Stati Uniti, dovrebbero ispirare da ora in poi la governance dell’economia globale. Il fondamento di idee errate è ancora una volta quello della competitività tra nazioni denunciato da Krugman come “ossessione pericolosa”. L’ossessione, oltre che errata, è appunto pericolosa: perché slitta facilmente verso politiche protezionistiche e guerre commerciali. Il pericolo è ora maggiore di quello sottolineato trent’anni fa da Krugman, perché oggi alla ricerca di una “supremazia economica”, sempre più ardua in un mondo multipolare, si sostituisce l’idea della egemonia di potenza pura e semplice, cioè della “supremazia militare”. E allora il pericolo non sono più solo le guerre commerciali ma le guerre senza aggettivi. Un po’ più di scienza economica fa bene alla pace.