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l'analisi

Una norma nazionale sugli affitti brevi, l'errore della proposta Santanchè

Marco Leonardi

Ogni città ha le sue caratteristiche. Per questo intervenire a livello nazionale, come propone la ministra del Turismo, è inutile

Non è stata fortunata la ministra Santanchè che ha presentato la sua proposta di legge sugli affitti brevi proprio nel giorno in cui la città di New York ha adottato limiti molto stringenti su Airbnb. In questo modo si nota la differenza tra una misura a livello comunale molto incisiva (quella di New York) e una misura nazionale come quella della ministra italiana che probabilmente sarà del tutto inutile. Il problema sta nel manico: non si può affrontare un tema molto importante per lo sviluppo delle città come la regolamentazione degli affitti brevi con una legge nazionale che si applicherebbe a tutti i capoluoghi di provincia e sostanzialmente vieterebbe l’affitto per meno di 2 giorni consecutivi. In tutto il mondo si procede città per città proprio perché ognuna ha le sue caratteristiche specifiche, New York è l’ultima di moltissime città americane a intervenire su questo tema addirittura per imporre la presenza del proprietario nell’Airbnb in affitto: sembra un limite davvero eccessivo ma segnala l’importanza del problema per le autorità cittadine. 

 

La proposta italiana sembra invece una norma uguale per tutti cosicché non serve proprio a nessuno: purtroppo è una tecnica legislativa ben nota. Per il 99% dei comuni italiani Airbnb è una benedizione, dovrebbe essere favorito, porta turismo (famiglie che viaggiano con bambini prediligono Airbnb) mette a uso case che altrimenti sarebbero sfitte.  In poche grandi città, tra cui sicuramente Milano, Bologna, Firenze e probabilmente altre, Airbnb sottrae migliaia di case al mercato degli affitti di lungo periodo. Gli studenti, gli infermieri, gli insegnanti ma anche tutti i giovani professionisti che vengono a Milano per cogliere le occasioni di lavoro temporanee non trovano più affitti di lungo periodo se non a prezzi molto elevati e lontani dal luogo di lavoro. E’ un problema perché Milano ha un modello di sviluppo basato sul turnover: il 50% dei residenti di oggi non era residente a Milano 10 anni fa, un tasso di turnover da città americana in cui le persone vengono, affittano e poi vanno via. 

 

Airbnb è un fenomeno ormai vecchio di 10 anni ma fino a 2 anni fa chi voleva guadagnare con gli affitti brevi sostanzialmente doveva organizzarsi da solo (registrazione della casa presso il comune, l’annuncio online, accoglienza e documenti degli ospiti da comunicare alle autorità, pulizie e tasse) e i proprietari di casa con il tempo e la voglia di fare da soli erano un numero limitato. Ma da 2 anni a questa parte sono sorte centinaia di piccole società che gestiscono tutto loro e al proprietario arriva un bonifico mensile netto di tutto. Un servizio assolutamente meritorio e utile, un nuovo business che merita tutto il successo che ha avuto. Il punto però è che nessuno ha capito la portata dirompente, non di Airbnb, ma di queste società che gestiscono tutto per conto del proprietario. L’effetto è che chiunque abbia una casa da affittare (al netto di tutto, commissioni, tasse, etc) ha un vantaggio del +50-100% ad affittarla a breve termine piuttosto che con un contratto di affitto standard. E questo è vero nei centri storici ma è vero anche nella seconda cerchia fin quasi alla periferia di città piccole come Milano, Firenze, Bologna dove i tassi di occupazione dei turisti sono comunque tali da rendere conveniente l’affitto breve rispetto all’affitto standard 4+4 anni, che per di più è sempre esposto al rischio di lunghe procedure di sfratto (la politica di favore per gli inquilini morosi è sicuramente una causa del cul de sac in cui ci siamo infilati). Non è un problema solo italiano, l’80% delle prime 200 città destinazioni mondiali del turismo sono intervenute sugli affitti brevi. Amsterdam ha eliminato 10 mila case dalle liste Airbnb, Tokyo 14 mila. Alcune sono anche tornate a rilassare le regole perché avevano esagerato.

 

Regolamentare Airbnb non risolve del tutto il problema degli affitti alti: gli studi più seri stimano un effetto piccolo (+10% Airbnb corrisponde a meno di 1% di aumento di prezzo di affitti) ma le stime scontano il fatto che Airbnb tende a essere concentrato in centro mentre l’effetto dell’aumento degli affitti si sente anche in periferia. Nel lungo periodo per tenere sotto controllo i prezzi delle case si deve aumentare l’offerta abitativa partendo dalle riqualificazioni (uno studio molto quotato ha messo il costo di limitare le nuove costruzioni in città importanti in America addirittura al 9% del pil in Usa), si possono spostare alcune attività come i campus universitari o gli ospedali fuori dal centro, si possono costruire nuovi servizi pubblici di trasporto in modo che anche le periferie diventino più raggiungibili. Tutto questo nel lungo periodo e sapendo che in molte città lo spazio è ormai fisicamente limitato. Invece di fare norme nazionali inutili e insistere su un’autonomia regionale che fa acqua da tutte le parti, sarebbe utile riconoscere una sana autonomia comunale per regolamentare il fenomeno Airbnb in alcune, poche, città le quali, per continuare a prosperare, devono garantire un numero sufficiente di case in affitto di lungo periodo.  

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