Foto dal sito di Valleverde 

L'impresa

Valleverde spiega come si difende la manifattura senza troppi slogan

Mariarosaria Marchesano

Le intuizioni di Elvio Silvagni per rilanciare un marchio rilevato ad un'asta fallimentare nel 2015 e renderlo un brand che nel 2022 ha chiuso con un fatturato di 25 milioni di euro

Il bello degli imprenditori è che volte fanno sfide impossibili. E quando le vincono, come nel caso di Elvio Silvagni che ha rilanciato il marchio Valleverde dopo averlo rilevato da un’asta fallimentare nel 2015, ci si domanda in che modo hanno fatto. Soprattutto quando in mezzo ci sono state pandemie, guerre, crisi energetiche, blocco delle forniture mondiali e tensioni geopolitiche di ogni sorta sui mercati internazionali. Ma soprattutto quando l’imprenditore in questione, contro ogni tendenza, si rifiuta di vendere le scarpe online perché “bisogna andare nei negozi a misurarle ”. Nonostante tutto questo, la nuova Valleverde ha imbroccato la strada della crescita: il 2022 si è chiuso con un fatturato di 25 milioni di euro, in salita rispetto ai 14 milioni del 2021 e ai 17 milioni del 2019 (pre Covid). E a Fusignano, nel ravennate, dove oggi ha sede l’azienda fondata negli anni Settanta a Coriano, provincia di Rimini (è tutta una storia romagnola), stanno festeggiando in questi giorni le proiezioni per il 2023 che si chiuderà con 30 milioni di fatturato, in rialzo del 20 per cento rispetto allo scorso anno.

Silvagni è abituato a fare di testa sua, con l’aiuto della moglie, Margherita Montanari, che lo aiuta nella gestione del gruppo Silver 1, la holding che controlla Valleverde e anche la Goldstar, la fabbrica con cui ha cominciato a produrre calzature ormai quarant’anni fa. Quando gli si chiede come vanno le cose tra gli imprenditori manufatturieri come lui, i protagonisti del made in Italy che, secondo gli ultimi dati, starebbero alimentando il fuoco dell’inflazione con superprofitti, risponde così: “Non è assolutamente vero, per due stagioni abbiamo accusato il rincaro delle materie prime e ci abbiamo rimesso, senza fare utili. Se riusciamo a recuperare margini sarà nella prossima stagione invernale 2023-2024”. E aggiunge un’altra osservazione fuori dal coro: “Per la mia esperienza, non esiste made in Italy senza marchio. Quello che conta è il marchio, soprattutto quando si parla di scarpe e di vestiti, come bene sanno le multinazionali europee della moda. Quelle sì che fanno tanti profitti pur producendo in Cina e in Asia”. Insomma, il concetto è che se uno produce “made in Italy” non è detto che automaticamente abbia successo se alle spalle non c’è un brand riconoscibile. Come lo era Valleverde negli anni Ottanta e Novanta, quando testimonial come Carlo Fracci, Raffaella Carrà e Kevin Kostner si prestavano a indossare le calzature “comode”. “La nostra sfida è stata anche quella di cambiare in parte questa percezione del pubblico – spiega Silvagni – aggiungendo l’eleganza alla comodità”.

L’intuizione di puntare su un “fashion quotidiano” – senza mai diventare modaiolo - ha consentito a Valleverde di ampliare la fascia dei consumatori dagli over 50 agli over 30-35, conquistando così un target giovanile ma non troppo che negli ultimi anni ha dimostrato di voler provare qualcosa oltre le sneaker.“Investiamo molto in ricerca e sviluppo e nel brevettare nuove tecnologie, l’unica cosa che ci salva dalla concorrenza del Far East”, dice l’imprenditore citando numeri di tutto rispetto per una piccola-media azienda: 850 mila paia di calzature prodotte all’anno in stabilimenti che danno lavoro a 200 persone. “Se dovessi autodefinirci direi che siamo made in Europe perché la produzione è divisa tra Italia, Slovacchia e Romania, non siamo mai arrivati in zone di fabbricazione troppo lontane, crediamo in quello che oggi chiamano nearshoring, cioè l’approvvigionamento delle forniture nei paesi vicini.

Certo, la concorrenza dell’estremo oriente si sente”. Come vede la globalizzazione un imprenditore che da oltre quarant’anni è sulla cresta dell’onda e settant’anni ancora ha voglia di misurarsi con un mondo che cambia? “Purtroppo, vedo un futuro debole per l’Europa manifatturiera perché dovrà competere con aree del mondo molto aggressive, come la Cina che si sta riprendendo dopo le chiusure e con l’India che sta crescendo rapidamente. Però, rispetto al periodo del Covid quando si vendevano solo pantofole, le cose per noi stanno andando molto bene. C’è stata la ripresa e la stiamo cavalcando proponendo un marchio glorioso con una nuova identità. Non ci lamentiamo”.

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