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La transizione ecologica non è un pranzo di gala

Carlo Stagnaro

Sussidi pubblici, debito (buono), patrimoniale verde: Jean Pisani-Ferry mette sul piatto costi e benefici. E fa discutere la Francia

Nessuna transizione è gratis e non è detto che i governi siano disposti a pagarne (o a farne pagare) il prezzo. Si può riassumere così il dibattito che è divampato in Francia dopo la pubblicazione del rapporto sull’impatto economico delle politiche per il clima, firmato dall’economista Jean Pisani-Ferry. Il documento porta il timbro autorevole di France Stratégie, una sorta di think tank del governo transalpino, di cui lo stesso Pisani-Ferry era stato commissario tra il 2013 e il 2017. L’importanza della pubblicazione non può essere sottostimata, sia per la storia dell’autore, sia per le circostanze che ne hanno determinato la redazione. L’economista francese è stato infatti il principale artefice della piattaforma economica con cui Emmanuel Macron vinse le elezioni nel 2017, e mantiene col presidente un rapporto assai stretto. Questo lavoro nasce da una richiesta della prima ministra, Elisabeth Borne, e fa seguito a un precedente paper in cui lo studioso aveva avvertito che le politiche di decarbonizzazione avrebbero avuto un rilevante impatto macroeconomico. Cosa dice, allora, lo studio?

Pisani-Ferry riconosce che la crisi climatica costituisce la più importante sfida che l’umanità deve affrontare e ritiene che la strategia europea per arrivare alla neutralità carbonica nel 2050 sia necessaria. L’inazione, nel lungo termine, è molto più costosa dell’azione. Di conseguenza, occorre interrogarsi su quale sia la strada migliore per raggiungere il traguardo. Esistono due possibili strategie: una “da follower”, consistente nell’utilizzo delle tecnologie esistenti per ridurre le emissioni al minimo costo; oppure una “da leader” attraverso la definizione di standard sempre più ambiziosi per tracciare, attraverso l’esempio, una sorta di regolamentazione globale a cui anche gli altri paesi finiranno inevitabilmente per accordarsi. Pisani-Ferry non nasconde di prediligere questa seconda strada, pur consapevole delle sue difficoltà. Ciò implica una moderata fiducia negli strumenti tradizionalmente preferiti dagli economisti – quelli che agiscono attraverso i segnali di prezzo, come la carbon tax – e una preferenza per interventi più muscolari. Per esempio, egli è favorevole al bando al motore endotermico dal 2035, perché ritiene che potrà accelerare e indirizzare gli investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione da parte delle compagnie automobilistiche.

Nell’esprimere queste considerazioni, a Pisani-Ferry non sfugge che tale approccio contiene rischi e potenzialmente costi imprevisti. Complessivamente, sarà necessario mobilitare investimenti per almeno 70 miliardi di euro l’anno e “fare in dieci anni quello che abbiamo faticato a fare in trenta”. Per giunta, la trasformazione dei nostri sistemi energetici è “spontaneamente iniqua” e caratterizzata da inevitabili spinte inflazionistiche. Come ha spiegato in una intervista al Monde, “in valore assoluto i ricchi emettono più dei poveri ma la spesa energetica ha una incidenza più bassa sul loro reddito. La transizione sarà più dolorosa per le classi lavoratrici perché ne colpisce i bisogni essenziali (casa, trasporti, cibo)”. Se non si comprende tale duplice esigenza di verità e di equità si rischia di mandare all’aria i piani per contrastare il riscaldamento del globo. E’ questa, in fondo, la principale lezione dei gilet gialli: “E’ intollerabile per le persone sentirsi dire che non potranno più utilizzare l’auto a combustione interna mentre i più ricchi semplicemente spenderanno qualche spicciolo in più per i loro weekend a Roma”.

Per Pisani-Ferry, si può rispondere solo assegnando allo stato un ruolo di primo piano nel finanziamento delle spese necessarie. Queste, insomma, non dovrebbero essere semplicemente scaricate sulle spalle dei cittadini, ma andrebbero poste in modo esplicito a carico delle finanze pubbliche. Con quali coperture? Intanto, è importante perseguire una seria revisione della spesa, con l’obiettivo dichiarato di ristrutturare la fiscalità energetica e ambientale eliminando i sussidi ambientalmente dannosi, quantificati in circa 10 miliardi di euro. Si tratta prevalentemente di sconti fiscali a vantaggio di categorie specifiche, come agricoltori e autotrasportatori, che quindi vanno maneggiati con cura per evitare rivolte. Secondariamente, dice Pisani-Ferry, occorre andare oltre e imporre una imposta patrimoniale straordinaria sul 10 per cento più benestante della popolazione, con una aspettativa di gettito attorno ai 5 miliardi di euro annui nel 2050 (dal 2018 la Francia ha abolito la residua imposizione sulla ricchezza finanziaria delle famiglie). 

I numeri però parlano da soli: se il fabbisogno si aggira attorno ai 70 miliardi e le principali fonti di gettito ne possono portare una quindicina, non resta che affidarsi al debito. Per Pisani-Ferry, quello emesso per sostenere investimenti verdi è, per così dire, debito buono e dunque andrebbe escluso dai vincoli del patto di stabilità. 

In principio, appare (ed è) un ragionamento freddo e oggettivo. Deve tuttavia fare i conti con numerosi ostacoli. A partire dalla politica: il ministro dell’economia, Bruno Le Maire, ha immediatamente alzato gli scudi contro la patrimoniale verde: “Le tasse sono una soluzione? No! La nostra politica è di tagliarle, visto che abbiamo già la pressione fiscale più alta di tutte le nazioni industrializzate”. Né si è dimostrato incline a spingere sul pedale del debito, facendo invece aperture più significativa alla revisione della spesa e della fiscalità ambientale. Ma c’è un problema più grande: sulla carta, e a un elevato livello di astrazione, è facile indicare l’auto elettrica o le fonti rinnovabili come la soluzione. Ma se appena ci si sposta su un terreno più pratico se ne vedono subito le mille difficoltà. Soprattutto, ci si rende conto che la pretesa di indirizzare l’innovazione e l’adozione delle nuove tecnologie nella direzione che oggi sembra la più promettente rischia di sbarrare la strada ad altre forme di progresso, potenzialmente anche più promettenti, di cui non siamo ancora consapevoli. In sostanza, l’assunzione implicita è che disponiamo di tutte le informazioni necessarie a prendere una decisione consapevole. Purtroppo, ci sono più cose tra cielo e terra di quante ne stiano nell’esercizio di Pisani-Ferry (e in molti altri analoghi). 

Il merito del suo contributo sta nell’aver messo a fuoco il problema dei costi e degli impatti distributivi delle politiche climatiche. Se si prende sul serio l’obiettivo della neutralità climatica, bisogna riconoscerne, esplicitarne e affrontarne le difficoltà.