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l'analisi

L'errore di concepire i prezzi come mero atto di volontà politica

Carlo Alberto Carnevale Maffè

Prelievi sui profitti delle banche, tentati accordi anti-inflazione, la minaccia di ricorrere alla "Finanza". Perché il sovranismo dovrebbe far pace con il mercato e abbandonare l’idea di un controllo politico dei prezzi

I prezzi sono bellissimi. Le tasse, e non ce ne voglia l’anima buona di Tommaso Padoa-Schioppa, un po’ meno. Ma le tasse usate come un martello per “aggiustare” i prezzi che non piacciono al Signor Ministro, sono brutte brutte. Fanno spavento, perfino, e gli investitori fuggono. Vediamo perché il governo Meloni sembra avere in odio i prezzi come metodo di mercato, e li concepisce solo come mero atto di volontà politica. In ciò rivelandosi in diretta antitesi ai principi di un’economia aperta e liberale, nonostante le surreali affermazioni lette in questi giorni da diversi ministri e sottosegretari, secondo i quali proibire gli algoritmi di revenue management delle compagnie aeree o imporre un prelievo fiscale retroattivo sui margini di interesse bancari (non chiamateli anche voi “extraprofitti”, che fate la figura dei baluba) serve magicamente a “tutelare il mercato”. E se qualcosa non convince il vigile Signor Ministro, scatta la spedizione punitiva contro gli speculatori: “Manderemo la Finanza!”, anche se non si sa bene dove, forse a controllare i server di Ryanair in Irlanda o i pozzi di petrolio in medio oriente.

 

Per i sovranisti in purezza, i prezzi di mercato, specie quelli delle commodities globali, sono odiosi perché sfuggono alla volontà di (onni)potenza dei rappresentanti del popolo sovrano, che interpretano il mandato democratico di governo come una specie di missione salvifica per conto del principio di giustizia in chiave nazionalistica, invece che come un servizio pro tempore ai cittadini, basato sulla Rule of Law. La reticenza ad accettare che l’interdipendenza economica internazionale ponga un ineludibile vincolo alle manie di controllo politico locale dei prezzi di gran parte dei beni e servizi si coglie sia con le trionfalistiche e ridicole autoattribuzioni del merito di discesa dell’inflazione (che in Italia scende semmai meno rapidamente che nelle altre economie europee: per Eurostat, a luglio 2023 l’Italia aveva un’inflazione attesa di circa l’1,1 per cento superiore alla media Ue) sia nell’analisi disaggregata delle dinamiche dei prezzi domestici. Secondo l’Istat, il rallentamento dei prezzi a luglio è dovuto principalmente alla dinamica dei prodotti energetici, che manda in deflazione congiunturale i trasporti (-1,0 per cento) e frena la crescita delle spese per abitazione, acqua, elettricità e combustibili (da +10,1 a +9,0 per cento). In accelerazione, invece, i prezzi dei servizi ricettivi e di ristorazione (+8,0 per cento rispetto a un anno fa), che sono quasi tutti originati “in famiglia” e proprio dalle categorie professionali privilegiate e protette dalla maggioranza di governo, con un prevedibile effetto negativo sulla domanda interna di turismo.

 

Quanto ai prezzi dei prodotti alimentari, che costituiscono tuttora la categoria merceologica con il livello di inflazione più alto (+10,7 per cento rispetto al luglio 2022), il governo ha voluto manifestare il suo attivismo giustizialista promettendo addirittura interventi di “blocco” dei prezzi in autunno, e in ciò scatenando la reazione critica delle imprese: Centromarca ha ribadito che servono semmai interventi di razionalizzazione e semplificazione delle filiere produttive per trasferire le maggiori efficienze a valle nei prezzi di mercato, e non certo azioni dirigiste che richiamano i vecchi e distorsivi “calmieri”.  Al governo andrebbe inoltre ricordato un solido principio economico, secondo il quale imporre una riduzione forzata della differenza dei prezzi finali, per esempio con l’esibizione di prezzi medi di dubbia validità statistica (si veda il caso dei carburanti) o addirittura con il minacciato “blocco”, ha effetti fortemente negativi sull’economia. I prodotti migliori, infatti, subiscono una riduzione di marginalità se non una perdita economica, mentre i beni inferiori, i cui prezzi tendono ad allinearsi “automaticamente” verso l’alto, ricevono un indebito sussidio. L’effetto è di penalizzare chi fa ricerca e sviluppo, usa le migliori materie prime e applica le migliori prassi industriali; al contrario, premia chi punta su qualità inferiore e basso livello di servizio. Infine, ed è l’effetto più grave, vengono meno gli investimenti e non c’è stimolo ad aumentare la produttività, con impatto negativo sui consumatori. Per chi voglia un’inoppugnabile dimostrazione empirica degli effetti di prezzi fissati dalla politica, c’è la storia dei regimi comunisti. 

 

La ricerca economica concepisce tuttavia che ci possa essere un intervento pubblico, purché temporaneo e rigorosamente documentato, sui prezzi relativi (ma non su quelli assoluti) di alcuni beni succedanei, per garantire che vengano correttamente incorporate nei prezzi le eventuali esternalità negative indotte dalla domanda: il classico caso è quello dell’energia, dove le accise sulle fonti fossili dovrebbero servire a rendere più convenienti, sussidiandole, le fonti rinnovabili. Ma anche in questo caso, dopo avere spergiurato in campagna elettorale di voler abolire accise sui carburanti che invece risultano più che giustificate in termini economici razionali, oggi il governo si inventa che esse vanno mantenute perché servono a “trasferire denaro ai poveri”. Niente da fare, i prezzi di mercato e il sovranismo populista proprio non vanno d’accordo.

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