l'analisi

Le ombre cinesi e globali sulla fragilità italiana

Mario Seminerio

La crisi immobiliare minaccia tutta l'economia cinese e potenziali ricadute globali, mentre il nuovo rialzo dei rendimenti è puro veleno per i grandi debitori come l'Italia

Come spesso accade, anche questo mese di agosto porta in dono ai mercati finanziari una dote di volatilità aggiuntiva e un ulteriore carico di preoccupazioni per l’economia reale. In Cina la crisi del settore immobiliare, innescata due anni addietro dal default del colosso Evergrande, giunge solo oggi sulle coste occidentali, con la richiesta di protezione dai creditori per ristrutturazione del debito presentata negli Stati Uniti. L’epilogo di una classica bolla, che per lunghi anni ha trainato la crescita dell’economia di Pechino in misura stimata pari a circa un terzo del totale.

 

Come ogni sboom immobiliare, le ricadute sono perniciose ma in Cina anche più ramificate del solito. Province e municipalità, che hanno costruito bilanci non sui tributi locali ma sull’equivalente dei nostri oneri di urbanizzazione, cedendo in affitto di lunghissimo termine terreni agli sviluppatori, devono essere salvati dal governo centrale, con ristrutturazione di debito e nuove iniezioni di fondi freschi.

 

La crisi dell’immobiliare sta contagiando i risparmi privati: il collasso della vendita di nuovi immobili ha vaporizzato la liquidità dei costruttori e minaccia di causare default a prodotti di risparmio costruiti su tali flussi di cassa, collocati dall’imponente sistema bancario ombra cinese.

 

La disoccupazione giovanile ha toccato a giugno livelli “italiani”, al 21,3%, prima che le autorità sospendessero la pubblicazione del dato, citando esigenze di “affinamento” della rilevazione.

 

La crisi immobiliare rischia di innescare una recessione assai poco ciclica, in cui i singoli e le imprese aumentano il tasso di risparmio per ripagare i debiti, facendo gelare l’economia. I primi segnali vengono dalla caduta in deflazione dei prezzi al consumo, dopo quelli alla produzione.

 

La confrontation con gli Stati Uniti contribuisce a frammentare le catene di fornitura globali e inietta pressioni inflazionistiche aggiuntive nel commercio internazionale, che si sommano a quelle generate dai mutamenti climatici sulle materie prime e dal conflitto ucraino.

 

Il mese di agosto vede anche un’altra fonte di turbolenza sui mercati: il rialzo dei rendimenti obbligazionari globali, che ha preso vigore malgrado il relativo ottimismo sul contenimento delle pressioni inflazionistiche.

 

I mercati, che si erano convinti che le banche centrali, a partire dalla Fed, avrebbero iniziato entro quest’anno a tagliare i tassi, stanno ridisegnando lo scenario assumendo che i tassi resteranno forse fermi ma elevati a lungo. La congiuntura statunitense si mostra incredibilmente resiliente malgrado un ciclo monetario restrittivo senza precedenti, spinta da poderose iniezioni fiscali legati alle politiche ambientali dell’Amministrazione Biden, che contribuiscono a un rapporto deficit-pil previsto quest’anno oltre il 6 per cento, anch’esso senza precedenti in assenza di recessione.

 

Il nuovo rialzo dei rendimenti obbligazionari rischia di essere puro veleno per le economie maggiormente indebitate, come quella italiana. Per ora non si evidenziano sofferenze finanziarie specifiche: lo spread resta complessivamente stabile malgrado la risalita dei rendimenti. Ma il quadro d’insieme sta diventando sempre più fragile, e potrebbe manifestare improvvisi segni di cedimento.

 

È verosimile ipotizzare che i mercati al momento non stiano prezzando un aumento del rischio Italia perché rassicurati dalla condotta finanziaria disciplinata sin qui tenuta dal governo Meloni. Ma la legge di bilancio incombe, col suo carico di promesse elettorali pronte a giungere al pettine: una riforma fiscale costosissima, un costante spin propagandistico che promette detassazioni sul lavoro a ogni stormir di opposizione, contratti pubblici da rinnovare, pensioni esistenti da indicizzare a un’inflazione che resta elevata, pensioni future da promettere a colpi di Quota 103 in attesa del miraggio di Quota 41. L'autunno promette di essere delle due l’una: o una sagra del “vorrei ma non posso” sui conti pubblici, con diversivi d’ordinanza basati sulle guerre culturali che tanto piacciono a social e teatrini mediatici; oppure la disperata ricerca di fondi rigorosamente temporanei per tenere in vita le promesse, magari da razziare con improbabili motivazioni di extraprofitto per svuotare l’acquario dove nuota l’opposizione. Su tutto, un’ipoteca e una grande incognita: la materializzazione del debito da Superbonus, nel peggior momento possibile, e l’eventuale cedimento della compliance fiscale da parte di contribuenti che attendono il prossimo saldo e stralcio.

 

Finora lo spread ha tenuto, malgrado rialzi dei rendimenti che rischiano di rimettere in moto la “palla di neve” di un costo del debito che eccede la crescita. Se dovesse cedere questo pericolante argine, saremmo costretti a rimpiangere i “bei tempi” in cui discettavamo di spezzare le reni alle accise e a Ryanair con la sola imposizione di Mister Prezzi.

 

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