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La Cina si inceppa. Frenata del pil, dirigismo e strategia “zero Covid” sono i segnali di un sistema in crisi

Mariarosaria Marchesano

La crisi cinese è considerata come la conseguenza di scelte politiche sbagliate e non più l’effetto di uno choc esogeno dovuto al Covid. E sui mercati la fiducia non è più la stessa

La Cina sta andando verso una crisi sistemica? Il sospetto comincia ad affiorare in alcune analisi dopo che la crescita del secondo trimestre 2022 è risultata ampiamente sotto le attese. Un pil aumentato solo dello 0,4 per cento rispetto allo stesso periodo del 2021 rappresenta il peggior dato dal 1992, se si esclude la contrazione del 7 per cento registrata nel primo trimestre del 2020 quando la pandemia era appena scoppiata. Una frenata così inattesa mette a rischio l’obiettivo di crescita fissato per quest’anno al 5,5 per cento (il Fmi prevede +3,3 per cento) e mette in guardia gli investitori finanziari che negli ultimi decenni hanno visto nei mercati asiatici un’attraente alternativa a Europa e Stati Uniti. 

 
Già con il crac di Evergrande e le politiche restrittive nel settore immobiliare, hi-tech e dell’istruzione introdotte dal governo di Pechino per inaugurare la stagione della “prosperità condivisa” alcuni operatori avevano cominciato a ridurre l’esposizione nei confronti di una Cina percepita sempre meno “market friendly”, ma da qualche tempo i timori si stanno esasperando. E soprattutto – questo è un fattore rilevante nelle valutazioni degli osservatori finanziari – la crisi cinese è considerata come la conseguenza di scelte politiche sbagliate e non più l’effetto di uno choc esogeno dovuto al Covid. Se da tempo, infatti, i governi occidentali hanno allentato le restrizioni, Pechino ha continuato a imporre lockdown durissimi come quello di Shangai, cuore finanziario e commerciale del paese, che nel secondo trimestre di quest’anno ha accusato una contrazione del pil del 13,7 per cento. Secondo la banca d’affari Nomura, sono 31 le città cinesi ancora in chiusura parziale e totale con ricadute su 250 milioni di persone in regioni che rappresentano circa il 18 per cento dell’attività economica del paese. “Ad aggiungere ulteriore pressione sull’amministrazione del presidente cinese Xi Jinping che ha fatto della strategia zero Covid uno dei suoi cavalli di battaglia – osserva l’Ispi in una ricerca – è la disoccupazione giovanile salita a un livello record del 19,3 per cento”. 

  
Probabilmente tutto questo non è sufficiente per mettere in seria difficoltà una potenza economica come la Cina, ma lo è per frustrare la sua ambizione di crescere di peso sui mercati finanziari e di rappresentare una nuova centralità sulla scena geopolitica mondiale dominata dal conflitto russo-ucraino. Una Cina che si va impoverendo, con lo yuan sceso al minimo contro il dollaro da settembre 2020, è meno credibile come alternativa alla leadership americana. Comunque, che il Dragone stia vivendo un momento economico non brillante è stato rimarcato anche dall’Agenzia di statistica cinese, che ha evidenziato come la pressione al ribasso sull’economia è aumentata in modo significativo rendendo meno stabili le basi per una ripresa economica sostenuta. 

  
Di qui il crescente scetticismo che si sta diffondendo tra gli investitori che un’analisi di Roberto Rossignoli del gruppo anglo-italiano Moneyfarm sintetizza così: “Sarà difficile che la Cina raggiunga l’obiettivo di crescita per quest’anno se continuerà a restare in vigore la strategia zero Covid e la posizione dell’esecutivo resta quella di voler nazionalizzare alcune aziende quotate. Scelta che lo scorso anno aveva generato volatilità sul mercato”, dice Rossignoli. Il riferimento è alla crisi del colosso immobiliare Evergrande che per poco non finì per generare un terremoto finanziario globale. Da allora le cose non hanno fatto che peggiorare con un’ondata di fallimenti che ha costretto il governo a stanziare un nuovo fondo da 44 miliardi di dollari per aiutare i costruttori e la classe media cinese che non ha più una casa. Secondo Rossignoli, le incertezze economiche potrebbero avere ripercussioni anche sul Partito comunista che oggi si trova in un momento particolarmente delicato. In Cina si terrà, infatti, il congresso del Partito proprio nel 2022 e la presenza di un’economia fiorente e forte rientrava nel patto che i cittadini cinesi avevano sottoscritto con l’attuale governo. “Ma l’economia vacilla e sembra che non si possa replicare la ripresa quasi immediata sperimentata dopo la prima ondata di Covid nel 2020”, prosegue l’esperto di Moneyfarm che conclude così: “Nonostante quest’area geografica risulti tra le più convenienti, per ora rimaniamo in fase di monitoraggio visto che i rischi legati a nuove possibili ondate di Covid e alla narrativa politica rimangono troppo alti”. E’ un segnale che sui mercati la fiducia nei confronti della Cina non è più la stessa.
 

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