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niente panico

Il taglio del rating Usa e la fine del tempo della generosità fiscale

Mariarosaria Marchesano

Fitch declassa a sorpresa gli Stati Uniti ma la notizia non provoca nei mercati finanziari una reazione violenta, come previsto nel panorama politico ed economico

La decisione a sorpresa dell’agenzia di rating Fitch di declassare gli Stati Uniti ha provocato una reazione dei mercati finanziari molto meno violenta di quella generata nel panorama politico ed economico. Non è stata proprio un’alzata di spalle, come ieri mattina prevedevano i più ottimisti, ma un sussulto per ora contenuto, come si è visto dall’avvio di Wall Street ieri e dalla chiusura delle borse europee: perdite diffuse di un punto, un punto e mezzo, degli indici ma niente panico mentre il dollaro si è mantenuto stabile. Di motivi di preoccupazione ce ne sono perché in un mercato che viene da tre anni di perdite nelle obbligazioni sovrane, cosa mai vista nella storia, assicurano gli esperti, qualsiasi notizia negativa non è la benvenuta. 

In effetti, i rendimenti dei titoli di stato sono da tempo sotto pressione sulle due sponde dell’Atlantico – cosa che per gli stati vuole dire crescenti costi di finanziamento  – a causa delle politiche restrittive messe in atto dalle banche centrali per combattere l’inflazione. Sapere che su un paese come gli Stati Uniti pende una spada di Damocle per il suo merito di credito (il rating tripla A è stato messo in discussione da due delle tre più grandi agenzie di rating) rappresenta una nuova variabile in uno scenario geopolitico già ricco di tensioni. “Di per sé l’aggiustamento del rating americano non è particolarmente rilevante, ma è un tassello del puzzle che potrebbe causare un aumento della volatilità del mercato – spiega il capo economista di T. Rowe Price, Nikolaj Schmidt –. Il messaggio per i governi di tutto il mondo è chiaro: dato l’aumento dei tassi d’interesse, il servizio del debito in essere implica che le espansioni fiscali peseranno molto sui deficit fiscali del futuro”. Insomma, per mantenere la sostenibilità del debito, la politica fiscale deve tornare a un atteggiamento prudente. E “senza dubbio si tratta di un messaggio indesiderato soprattutto in un momento in cui il motore della crescita globale stenta a decollare”, osserva Schmidt. Ma quali saranno le conseguenze per gli Stati Uniti e ci saranno contraccolpi in Europa? Gli analisti sono tutti moderatamente ottimisti. Secondo Vincenzo Cuscito di Moneyfarm il primato americano nel sistema economico globale non risulta minato. “Come nel downgrade di Standard &Poor’s nel 2011, potremmo assistere a un aumento della volatilità nelle prossime settimane, ma le movimentazioni per ora sono già molto più contenute rispetto ad allora. Restiamo quindi dell’idea che le variabili chiave da monitorare rimangano inflazione, mercato del lavoro, crescita economica e politica monetaria”. 

L’aspetto più interessante messo in evidenza dal declassamento di Fitch è la sfida tra la passata generosità fiscale e una politica monetaria che, per contenere le pressioni inflazionistiche, è diventata più rigida. Il sentiero del debito pubblico americano ha sempre destato qualche preoccupazione, come del resto quello italiano. L’ultimo scontro al Congresso sull’aumento del tetto del debito però, secondo gli osservatori più scettici, non ha semplicemente mandato in onda il solito gioco delle parti tra repubblicani e democratici che va avanti da quarant’anni ma qualcosa di più. Avrebbe mostrato che gli Stati Uniti non hanno una strategia fiscale chiara. E’ questo l’aspetto che  ha più influenzato la decisione di Fitch, che è apparsa in qualche modo sorprendente sia per la tempistica (ripresa economica dopo gli choc pandemici e bellici) sia per le scarne motivazioni a supporto (“crescenti disavanzi pubblici ed erosione della governance, a causa della polarizzazione politica che si crea su spesa pubblica e tetto al debito pubblico”) che hanno dato il là alla reazione della segretaria del Tesoro degli Stati Uniti, Janet Yellen, che ha definito la decisione “obsoleta” e “arbitraria” in quanto basata su informazioni datate. Reazione a cui si è aggiunta quella di molti economisti di spicco, tra i quali il premio Nobel Paul Krugman, secondo il quale la mossa di Fitch è “bizzarra”, dato che “la più grande notizia economica dell’anno è il notevole successo dell’America nel far scendere l’inflazione senza una recessione”. In effetti, la resilienza dell’economia americana di fronte alla stretta monetaria della Fed è un dato di fatto. Ma lo è anche, come ha messo in evidenza Antonio Cesarano, chief global strategist di Intermonte, che il rialzo dei tassi della Fed e il conseguente rialzo dei tassi di mercato “ha comportato un aumento del costo medio dei circa 33 mila miliardi di dollari di debito, a circa il 2,75 per cento, al massimo dal 2012”.

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