(foto Ansa)

l'intervista

“Vigilare, non intralciare”. Busia ci dice che può fare l'Anac per il Pnrr

Stefano Cingolani

“D’ora in poi la salita sarà particolarmente ripida”, ammette il presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione. Che sull'uso dei fondi europei chiede correttivi, non di bloccare tutto

Uno spettro s’aggira per l’Europa partendo proprio dall’Italia. E’ un fantasma antico, in grado di trascinare il Piano nazionale di ripresa e resilienza nella mefitica landa dello spreco e dell’assistenzialismo, là dove si confonde la spesa con l’investimento, il distribuire quattrini con le riforme e lo sviluppo. “Siamo qui per aiutare il governo, le regioni, i comuni ad esorcizzare questa ombra oscura”, spiega al Foglio Giuseppe Busia, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac). Ma attenzione, non vuol essere preso per un ghostbuster né per un arcigno guardiano della moralità pubblica, soprattutto rifiuta di essere considerato un “signor no”. A chi come noi teme che i vigilanti diventino di fatto i guardiani del nulla, gli agenti della decrescita infelice, ribatte con l’elogio di una triade liberale: competition, transparency, accountability; concorrenza, trasparenza, responsabilità che ha un significato più ampio di controllo.

 

Istituita nella forma attuale nel 2012 con la legge Severino, l’Anac vede la luce nel 2014 con il governo Renzi, che nomina presidente Raffaele Cantone il quale, in contrasto con Giuseppe Conte, si dimette nel 2019. Dall’anno successivo è presieduta da Busia, 54 anni, avvocato, specializzato in Diritto comparato, già segretario generale dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, dalla quale è nata Anac. Composta da cinque membri e trecento dipendenti, come la Consob è finanziata con il contributo delle imprese sulle quali vigila, in base a un modello di autorità indipendenti di matrice anglosassone. Ma lo stato leggero che s’interfaccia con il mercato, in Italia è stato giustapposto allo stato pesante che si sovrappone al mercato, mai riformato fino in fondo nemmeno con l’avvento della Repubblica. Vasto programma, direbbe il generale de Gaulle. Intanto oggi c’è una sfida da brividi, che può far compiere importanti passi avanti: “mettere a terra” il Pnrr entrato nella fase decisiva e più impervia.

D’ora in poi la salita sarà particolarmente ripida”, ammette Busia. L’impatto strategico, ancor più che nell’ingente massa di denaro (191,5 miliardi di euro, 68,9 a fondo perduto e 122,6 con prestiti europei) sta nell’idea di base, “la stessa che sostituirà il Patto di stabilità e di crescita”. Il Piano ha tre gambe: le riforme, gli investimenti e un metodo che forse vale più di tutto il resto, cioè realizzare progetti condivisi che superino i cicli politici. La vera innovazione è “impegnare l’intero paese per più anni, coinvolgendo le istituzioni territoriali e tutti i governi che si succedono, di qualsiasi colore”, dice il presidente dell’Anac. Lo ha sottolineato l’8 giugno presentando la relazione annuale alla Camera dei deputati: “Il Pnrr è un terreno condiviso, sottratto alla dialettica politica di corto respiro, occorre andare oltre le pur legittime rivendicazioni di meriti, o le accuse per le innegabili mancanze”. Per questo, c’è bisogno di massima trasparenza e controllabilità dei progetti e della loro realizzazione.
 
Nel dibattito pubblico il Piano appare come una entità astratta e per molti versi estranea. Secondo Busia, per mobilitare tutti, “sarebbe meglio parlare dei piani, cioè delle cose concrete che dobbiamo fare con i miliardi di euro che vengono dall’Unione europea. Ci stiamo indebitando, sia direttamente sia indirettamente. Spesso si dimentica che quella somma andrà restituita, sia pure nel lungo termine. Ciò sarà possibile solo se servirà per crescere di più e in modo migliore”. Più piani meno Piano, insomma. Come? “L’Europa chiede risultati e non si accontenta delle promesse o solo delle modifiche di facciata: ci ha chiesto di avere più alberi e noi abbiamo pensato di risolvere piantando semi. Non si può: nel 2026 conteranno i tronchi non i germogli. Così, se ci chiedono di ridurre i tempi delle procedure o dei processi, non si accontentano che riscriviamo i codici, misureranno i tempi medi e, solo se sono ridotti, erogheranno il finanziamento. Ecco il cambiamento del quale abbiamo più bisogno”. La riforma del Codice degli appalti dovrebbe ispirarsi allo stesso spirito. Il principio guida è che il risultato va perseguito “con massima tempestività e migliore rapporto possibile tra qualità e prezzo nel rispetto dei princìpi di legalità, trasparenza e concorrenza”. 

Ma i rilievi dell’Anac alle scorciatoie introdotte, non rischiano di rallentare la marcia? Il giudizio sul Codice è nell’insieme positivo, tuttavia i rilievi sono tutt’altro che marginali: il primo riguarda gli affidamenti diretti per acquisti di beni e servizi, fino a 150 mila euro anche con un solo preventivo, come pure l’assenza di bandi e avvisi per i lavori fino a 5,3 milioni di euro, pur consultando diversi operatori. Può andar bene per casi di vera urgenza, per eccezioni chiaramente individuate. Secondo l’Anac, invece, il 66,3 per cento dei contratti potrà essere affidato direttamente, ad personam. Mentre di fatto il 96,3 per cento del mercato è sotto i 5 milioni di euro. Barriere troppo alte consentono non tanto la grande corruzione, ma la “maladministration”, termine inglese usato nel business per definire la cattiva gestione, in politica il malgoverno. E’ quel che l’autorità vuole evitare prima di ogni altra cosa. Altra grande critica riguarda le società pubbliche alle quali le amministrazioni affidano direttamente i contratti, senza passare dalle gare, estromettendo così i privati: fino a ieri l’Anac faceva un controllo preventivo sui loro requisiti, secondo le regole europee. Col nuovo codice tale verifica viene meno: ogni amministrazione costituisce una propria società e le fa gestire i propri servizi, estromettendo il mercato. Se poi sorgeranno problemi, si vedrà col contenzioso. “Così, però, si rischia di sprecare tali risorse, lasciando ben poco alle next generation, alle quali è invece dedicato il piano – aggiunge Busia – La deroga non può diventare regola”.
 
Un cerbero, un cane da guardia che reprime e punisce, il custode di un giustizialismo amministrativo che confonde il controllo con il castigo? Il presidente dell’Anac non ci sta. In opposizione al “controllo repressivo”, rilancia la sua formula: “Vigilanza collaborativa”. Non impedire di fare, ma aiutare a fare. E a fare bene. “Non si tratta di costruire strade ovunque e comunque, ma le strade che servono, dove servono, e non solo. Ci vogliono strade che conducano nel futuro, strade intelligenti che trasportino dati, che consentano la mobilità elettrica, la smart mobility. Decisivo sarà rinegoziare alcune misure – riconosce Busia – Non tutti gli investimenti hanno la medesima urgenza. Per questo possono essere spostati su altri fondi europei”.
 
Le chiavi per aprire le porte del Piano sono la stazione appaltante e il contratto d’appalto. La stazione è il soggetto che affida il lavoro all’impresa, il contratto è lo strumento attraverso il quale pubblico e privato si confrontano, è lo snodo fondamentale tra stato e mercato. Ci sono 26.500 stazioni appaltanti registrate, è chiaro che non possono svolgere qualunque tipo di acquisto, a prescindere dalle loro capacità. “Occorre una drastica riduzione del loro numero, unitamente alla concentrazione delle procedure di affidamento in alcune decine di centrali di committenza specializzate, diffuse sul territorio, che diventino centri di competenza al servizio delle altre stazioni appaltanti”. Il contratto pubblico deve avere base paritaria. Secondo Busia spesso non è così, come dimostra il progetto sul ponte tra Sicilia e Calabria: “Non metto in discussione la scelta, non spetta a me. Ma c’è uno squilibrio a danno del pubblico, sul quale finisce per essere trasferita la maggior parte dei rischi, anche quelli che spettano all’impresa. Il recente decreto legge, volendo evitare di fare una nuova gara, ci ha vincolati a un progetto elaborato oltre dieci anni fa, facendo resuscitare un vecchio contratto. All’inizio i costi erano stimati in quattro miliardi di euro, che sono poi saliti a otto. Adesso arrivano a 13,5 miliardi, col rischio di futuri contenziosi per violazione dei vincoli finanziari europei”.
 
Non solo le stazioni appaltanti, anche le imprese sono inadeguate. “Occorre svolgere una decisa azione di accompagnamento delle piccole e medie aziende verso i contratti pubblici, così la base del nostro tessuto imprenditoriale può trovare modo di crescere e strutturarsi, superando il suo limite dimensionale e aprendosi anche ai mercati esteri. Mancano operatori maggiori e gli affidamenti più rilevanti sono dominati da un unico gruppo imprenditoriale. Ce ne vorrebbero altri. Dobbiamo naturalmente essere felici di avere, con Webuild, un grande campione nazionale, che si afferma all’estero, ma poiché è il solo in Italia, le nostre grandi stazioni appaltanti ne sono di fatto prigioniere”. 

Come si fa a rispettare i tempi del piano con tutti questi lacci e impacci? Il presidente ha fiducia nell’aiuto della rivoluzione digitale: grazie alla Banca dati nazionale dei contratti pubblici di Anac acceleriamo le verifiche della parte pubblica ed evitiamo che le imprese debbano produrre più volte gli stessi documenti, offendo loro ulteriori servizi. Non solo: facendo lavorare l’intelligenza artificiale, si potrà realizzare un miglior governo della spesa pubblica, realizzando risparmi ed efficienza. Tuttavia, la tecnologia non sconfigge la corruzione diffusa, occorre una rivoluzione culturale. Competizione, non raccomandazione: potrebbe essere questo lo slogan; più forte è il monopolio più facile è l’abuso. “La corruzione è sempre uno scambio nell’interesse di pochi e a danno di tutti – aggiunge Busia – Ma non si vince da soli e neanche all’interno di un singolo paese. ‘Non si può gestire ciò che non si può misurare’, ha scritto l’economista Peter Drucker. Per prevenire e combattere la corruzione, serve conoscerla e misurarla. Abbiamo individuato indicatori fondati non sulla percezione, ma su elementi oggettivi del rischio correttivo: questo consentirà di restituire una immagine più realistica del nostro paese e favorirà anche gli investimenti esteri: i grandi fondi internazionali guardano con attenzione a tali indicatori per decidere dove far confluire i loro capitali”. Al termine di questa conversazione chiediamo al presidente dell’authority se è ottimista o pessimista sul Pnrr. Risponde con un sorriso: “M’affido all’ottimismo della volontà”. 

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