Lavoratori introvabili, disoccupati e lavoratori in fuga. Il lavoro e i suoi tre spettri

Maurizio Crippa

Immigrati, “grandi dimissioni” e una domandina sulle rendite. Il rebus dell'assurdo. Ma ci sono anche dei fattori che spettri non sono: il fattore umano, la decisione di cosa sia lavoro, e una capacità di visione realista

S’aggirano nell’occidente post industriale (e in quella sua landa provinciale e landinizzata che è l’Italia) ben tre spettri, altro che uno. Lo spettro del lavoro, nel senso che chi ce l’ha vorrebbe evaderne come dalla galera, almeno a sentire i teorici delle grandi dimissioni; lo spettro del non lavoro, nel senso un tantino più drammatico di chi non ce l’ha e ne ha invece bisogno (ma i recenti dati Istat informano che va un po’ meglio, rispetto al peggio di cui sempre si parla); infine lo spettro del lavoro che cerca lavoratori, ma sempre meno riesce a trovarne. Messo così sembra un rebus dell’assurdo, insolubile. Forse davvero lo è. Di solito analisti, economisti e specializzati vari cercano di sbrogliare la matassa partendo dai fili dei dati macro: digitale e IA rubano occupazione, la transizione green che dovrebbe essere la panacea stenta a partire, la crisi demografica toglie lavoratori anche dove il lavoro ci sarebbe e intanto la memoria lunga del Covid e il cambio di stili di vita inducono molti a darsela a gambe. Poi c’è il famoso mismatching tra domanda, offerta e formazione: nei distretti industriali lombardi le Pmi ad alta innovazione ormai “prenotano” i migliori elementi in uscita dalle scuole o dalle università con due anni d’anticipo sulla fine degli studi. E non è sicuro che trovino (certo, anche per i giovani al primo impiego oggi fanno premio le condizioni: la busta paga, anche se è buona, non è l’unico criterio). Gli spettri sono al lavoro e la notte è lunga. In tutto questo ci sono però un paio di fattori che spettri non sono: il fattore umano, la decisione di cosa sia lavoro, e una capacità di visione realista.

    
La recente relazione annuale di Banca d’Italia, molto commentata in questi giorni, afferma che per attivare la trasformazione energetica – nuove attività, attività svolte in modo diverso – servono almeno 120 mila nuovi lavoratori, ma quei posti resteranno vuoti per mancanza di personale. La causa è complessa: da una parte in tre anni si sono persi 500 mila posti per l’invecchiamento, mentre la crisi demografica prosciuga il bacino “autoctono” dei lavoratori. Dall’altra i flussi migratori non hanno compensato quei buchi come si sperava. Anzi, il deficit potrebbe arrivare a 800 mila lavoratori in tre anni.  C’è un problema con i flussi migratori? Sì, c’è. Ma c’è anche un problema di occupabilità di questi lavoratori in arrivo. Secondo il governatore Visco “occorreranno politiche di formazione e integrazione, indispensabili per l’inserimento dei migranti nel tessuto sociale e produttivo”. Dunque l’aumento dei flussi non può essere inteso come pura soluzione numerica. 

 
C’è un problema di inserimento dei giovani? Sì, lo si è visto. Ma c’è anche un problema generale di sacche di disoccupazione che, un po’ per motivi oggettivi e un po’ per altri più misteriosi, non si riescono ad attivare. Eurostat nel 2021 conteggiava al sud  oltre 501 mila disoccupati “di lunga durata”. Tutti davvero non occupabili? Non è certo questione di dare ragione al ministro Lollobrigida (“lavorare in agricoltura non è svilente, lo è stare sul divano”), ma una  percentuale di lavoro ci sarebbe e non sempre i posti vuoti sono colpa della “parte datoriale”.

 
Poi c’è lo spettro che si aggira in modo più rumoroso, l’abbandono volontario del lavoro. Può essere osservato da molti punti di vista, ma c’è un fattore umano che qualche domanda suscita. Il punto di vista dominante, che ormai anche le imprese tendono a subire considerandolo irreversibile, è che dietro un fenomeno che in Italia ha superato i  due milioni di casi in due anni ci sia in sostanza il divario tra le aspettative di chi lavora e gli interessi delle aziende. E’ la tesi centrale del saggio, ultimo tra i molti usciti, “Le grandi dimissioni - Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita” della sociologa e attivista Francesca Coin presentato ieri sulla Stampa. La necessità di tutelare ed estendere i diritti dei lavoratori e ripensare le finalità della struttura produttiva sono il nucleo di una visione multipla che tutto tiene, dalla  crisi climatica a quella energetica destinata a spazzare via l’epoca del profitto capitalista, al cambiamento degli stili di vita individuali (il collettivismo è finito da un pezzo). Le grandi dimissioni sono “uno sciopero generale dichiarato dal lavoro specializzato”, perché “milioni di persone si sono rese conto che il luogo in cui lavoravano non era una grande famiglia”. E qui, un “ci mancherebbe pure” ci starebbe tutto. Perché mai il luogo di lavoro dovrebbe essere anche un posto in cui si sta bene? Ha un po’ l’aria di una “nostalgia da ricchi”, per dirla con Guccini. Il fenomeno è monitorato da tempo, ma spesso si trascura un aspetto. Lasciare un lavoro è possibile per chi ne ha un altro migliore, e questo significa, anche, che il lavoro non è poi così irreperibile. Oppure significa che chi lo lascia – al pari dei molti giovani che “attendono” il lavoro giusto – ha altre fonti di reddito. Che possono essere famigliari o patrimoniali. Nulla di male. Ma più che una critica al capitalismo tossico, tutto questo sembra appoggiarsi su una posizione di rendita. Luca Ricolfi in un libro aveva definito l’Italia una “società feudale di massa”, in cui una quota maggioritaria della popolazione vive senza lavorare contando su rendite o sull’aspettativa di rendite future. E garantendosi prezzi “calmierati” dei servizi perché a svolgere quei lavori ci sono lavoratori sottopagati. La domandina se lo spettro delle grandi dimissioni dal sistema produttivo (per quanto imperfetto) non sia anche  giocare di sponda con la prospettiva di declino generale, bisognerebbe farsela.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"