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L'analisi

Il decreto per il Made in Italy non sa cos'è il Made in Italy

Serena Sileoni e Carlo Stagnaro

Nel provvedimento predisposto dal ministro Adolfo Urso ci sono licei, bollini e mancette per fare le cose “come una volta”. Ma è un’immagine distorta dell’industria italiana

Se, a furia di sentir parlare di razza (Lollobrigida), italianità (Meloni), etnia (Roccella) o identità (Sangiuliano), siete tornati ad arrovellarvi su cosa mai vogliano dire queste parole, in generale e soprattutto in uno stato dalle controverse vicende unitarie, con una lingua comune solo da quando esiste la televisione e una diversità di tradizioni che tagliano almeno in due lo stivale, riteniamo di potervi tranquillizzare: nemmeno il governo lo sa. O comunque non lo spiega il disegno di legge “per la promozione e tutela del made in Italy”, predisposto dal ministro Adolfo Urso per valorizzare “le produzioni d’eccellenza, le bellezze storico artistiche e le radici culturali nazionali, quali fattori da preservare e tramandare non solo a fini identitari ma anche per la crescita dell’economia nazionale”.

Un disegno di legge, beninteso, non è un’enunciazione di principi: ma se ha una filosofia, questa dovrebbe emergere dagli articoli che lo compongono. Il problema, quindi, non è la mancanza di definizioni, quanto l’assenza di qualunque filo conduttore al di là delle prime dichiarazioni di principio dedicate al “recupero delle tradizioni” o alla “valorizzazione dei mestieri”.  Certo, il ddl non è alieno da tic linguistici. L’espressione alloctona “Made in Italy” compare ben 74 volte, con buona pace della proposta di costituzionalizzare l’italiano del ministro della Cultura Sangiuliano e della battaglia contro i forestierismi dell’on. Rampelli. Ma poi la logica si perde per strada. O, meglio, c’è ma poggia su un fraintendimento da cui derivano i risultati modesti dell’intero provvedimento. Per esempio, sarebbe divertente immaginare le iniziative che si svolgeranno il 15 aprile in occasione della Giornata nazionale del Made in Italy. E chissà se al governo, nel cercare una data libera nel calendario ormai zeppo di simili ricorrenze, hanno esclamato “ma sono tutte occupate!” senza accorgersi di aver rubato la battuta al sinistrorso Nanni Moretti in Ecce Bombo. 

Più difficile è immaginare cosa potranno studiare i nostri giovani al Liceo Made in Italy, visto che dovrebbe servire ad “acquisire conoscenze, abilità e competenze approfondite nelle scienze economiche e giuridiche, all’interno di un quadro culturale che, riservando attenzione anche alle scienze matematiche, fisiche e naturali, consenta di cogliere le intersezioni tra i saperi”. Sembra una descrizione vaga. A ben vedere, però, obiettivo del curriculum di studi dovrebbe essere fornire agli studenti “principi e strumenti per la gestione di impresa”, “tecniche e strategie di mercato per le imprese del Made in Italy”, “strumenti per il supporto e lo sviluppo dei processi produttivi e organizzativi delle imprese del Made in Italy” e “strumenti di sostegno all’internazionalizzazione delle imprese dei settori del Made in Italy e delle relative filiere”. In pratica: il liceo del Made in Italy è ragioneria più le lingue

Il ministero del Turismo, dopo le facili ironie alla campagna pubblicitaria Open to Meraviglia, si doterà di un comitato  per promuovere l’immagine del bel paese. Della serie: provaci ancora, Sam. Compare la già annunciata norma per contrastare “l’utilizzo speculativo dell’Italian sounding” (Rampelli si giri dall’altra parte…) dei ristoranti all’estero. Per incentivare i ristoratori stranieri a cucinare italiano il decreto prevede che possano ottenere un contributo per l’acquisto di prodotti italianissimi, per un valore di 5 milioni di euro per il 2024. Accanto a questi articoli pittoreschi, ci sono previsioni ancorate alla tradizione (è proprio il caso di dirlo) di approfittare di ogni buona scusa per usare i soldi dei contribuenti a favore di specifiche iniziative e categorie.

Ci sono così misure generali, dal fondo sovrano che è una Cdp in sedicesimo (Il Foglio, 18 maggio), ai 202 milioni per l’incentivazione del design e dell’ideazione estetica; dai 15 milioni per l’imprenditorialità femminile agli altrettanti 15 milioni per i servizi di consulenza per la brevettazione. E ci sono misure settoriali come i 60 milioni per il 2024 per il sostegno del settore vivaistico forestale, delle imprese boschive e della filiera delle fibre tessili naturali, o misure di semplificazione per la filiera della ceramica e della nautica. Bisognerà convincere l’Unione europea che la distribuzione di queste risorse non ha nulla a che fare con gli aiuti di stato, dopo aver spiegato agli italiani che ha qualcosa a che fare con l’identità patria.

Infine, non mancano l’istituzione di una fondazione, con una dotazione iniziale di 10 milioni di euro per il 2024 e ulteriori 10 per il 2025, che dovrà occuparsi, tra le altre cose, di curare e gestire l’“Esposizione nazionale permanente del Made in Italy”, e un fondo per l’informazione e la sensibilizzazione presso il ministero delle Imprese e del made in Italy, del valore di 2 milioni per il 2023 e 10 milioni per il 2024. Balza agli occhi la scelta di distribuire piccolissime somme a tanti beneficiari: una manciata di milioni non cambierà certo le sorti di nessuno degli ambiti interessati. E che il Made in Italy sia o no sotto attacco, la sua difesa non potrà certo arrivare da esigue risorse pubbliche distribuite senza un criterio consequenziale. Il che conduce al grande equivoco alla base del disegno di legge: l’idea, cioè, che il Made in Italy sia una categoria merceologica, allo stesso modo in cui lo sono le piastrelle, il legno, l’olio d’oliva e la confettura di limoni. Esemplare in questo senso è l’articolo dedicato al contrassegno Made in Italy: a quanto pare, per ottenerlo è sufficiente l’origine italiana delle merci (ammesso che sia facile definire cosa sia per i prodotti lavorati), in contraddizione con l’intenzione dichiarata di promuovere le eccellenze. 

D’altro canto, assieme a questa idea di sostegno a pezzi dell’economia italiana, c’è la sensazione che il Made in Italy sia associato a un tessuto di iniziative artigianali di piccole o micro dimensioni che fanno le cose come una volta – dalla salsa al pomodoro a quelle belle porcellane che, signora mia, ormai non si trovano più. In questa chiave si capisce l’intera impalcatura del ddl: il liceo dovrà formare ragazzi di bottega che troveranno occupazione in piccoli esercizi locali sorretti da qualche spicciolo pubblico, e strenuamente difesi dalla concorrenza (naturalmente sleale) di tutto ciò che è riconducibile al progresso, dai supermercati alle piattaforme online fino al cibo industriale. Il problema è che questa è una patina pittoresca che nella migliore delle ipotesi aggiunge un tocco di colore a un’economia stagnante. Il vero Made in Italy – quello che tiene in piedi la baracca e davvero meriterebbe sostegno – non sono i vasi fatti a mano o i piatti finemente decorati, ma quella fascia di imprese di medie dimensioni, soprattutto manifatturiere, che investono, innovano ed esportano. Queste imprese non fanno il macramè (fantastica tradizione che merita di essere preservata ma a cui difficilmente si possono affidare le sorti del paese) bensì bulloni, tondini, rubinetti, occhiali, sistemi di precisione, eccetera. Il Made in Italy che ha bisogno di aiuto è, in questo senso, tutto ciò che è fatto in Italia (da imprese italiane ed estere, da lavoratori autoctoni o immigrati) e che rende il nostro paese un po’ meno ancorato alle cose di una volta e un po’ più aperto al mondo globalizzato. 
Cos’è allora il Made in Italy?

Se il governo non ha chiare le idee, dando un colpo al cerchio della sola economia tradizionale “a fini identitari” e uno alla botte dell’innovazione “per la crescita dell’economia tradizionale” (si legga ad esempio l’articolo dedicato al rifinanziamento del Voucher 3i accanto alla “valorizzazione dei mestieri”), è perché la capacità di immaginare, creare, fabbricare, offrire beni e servizi in un paese è un po’ più complessa dell’apposizione di patacche. Il Made in Italy non è fatto solo di laboratori artigianali, ma anche di imprese industriali che cercano di stare sulla frontiera della tecnologia. Attività, entrambe, che non hanno bisogno né di mancette né di percorsi scolastici ad hoc, ma di uno stato che funziona, che dà servizi di qualità comparabile a quelli che si trovano all’estero e che pretende in cambio tasse commisurate. La difesa del Made in Italy non passa dunque per una strategia mirata a specifiche categorie di imprese, ma per una seria ristrutturazione delle istituzioni, in relazione a ciò che fanno (troppo), a come lo fanno (male) e a quanto costano (a dismisura).

Poiché queste considerazioni sono abbastanza ovvie, la ragione del ddl non può essere un simile abbaglio. Deve essere radicata nella politica politicante. La Lega di Salvini e ancor più Fratelli d’Italia hanno ottenuto la maggioranza politica con anni di campagna sovranistica. In questi primi mesi di governo, tuttavia, hanno saputo distinguere l’azione dalla comunicazione e, in particolare, hanno ritrattato i toni nei confronti dell’Europa e dei “poteri” stranieri. Il disegno di legge torna invece a mescolare le due cose e riportare le istanze dell’attuale maggioranza nell’alveo delle loro più radicate rivendicazioni politiche. La valorizzazione del patrimonio storico, artistico e culturale, materiale e immateriale c’entra poco. C’entra invece il mito nazionalista che usa l’argomento culturale come fattore di convincimento delle posizioni sovraniste.  

Se all’origine della costruzione della sua mitologia la Nazione serviva a individuare un sovrano che non fosse il re, la versione attuale serve a edificare in maniera posticcia un’identità culturale che ristabilisca la necessità della politica come difesa dall’altro: lo straniero, la burocrazia europea, i mercati esteri, le diversità in tutte le loro forme e manifestazioni. Tra le righe del decreto non c’è una difesa genuina del patrimonio italiano, qualunque cosa esso sia. C’è piuttosto l’invenzione della tradizione [© Hobsbawm e Ranger] da preservare per dare dignità alla difesa di interessi di bottega (politici, prima di tutto) dagli scambi e dalle contaminazioni che hanno reso feconde le nostra società aperte.