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L'analisi

Perché “spendere per spendere” sarebbe il fallimento del Pnrr

Nicola Rossi

Il dibattito in corso sul Piano europeo non può essere derubricato come una polemica oziosa o inutile. Non basta che i progetti "non siano pessimi": devono essere perfetti. L'accantonamento di una parte di essi è inevitabile

Il piano Next Generation Eu è l’espressione a oggi più tangibile e senza molti precedenti di un’Unione europea capace di guardare a se stessa come a una comunità realmente priva di frontiere fisiche e culturali al suo interno e segnata da un destino comune e condiviso. Esattamente per questo motivo la sua attuazione richiede oggi da parte di tutti gli stati membri uno sforzo aggiuntivo di serietà e trasparenza. Il dibattito in corso in questi giorni sui tempi e i modi di attuazione del nostro Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) non è quindi ozioso o inutile. Né può e deve essere derubricato a uno dei tanti esempi di piccola polemica politica che ci sforziamo di non farci mancare mai. In questo senso è esemplare la decisione del governo di riferire al Parlamento – e di conseguenza al paese – sulle stesse tematiche.

 

Serietà e trasparenza richiedono comunque che siano a tutti chiari i termini del problema e il lavoro del ministero dell’Economia (le cui ipotesi e i cui metodi prenderemo, in questa sede, per buoni) in questo ci è di aiuto. Secondo le stime del Mef, l’impatto macroeconomico di breve periodo del Pnrr per lo più canalizzato dai maggiori flussi di investimenti pubblici (e assai meno dalla spesa pubblica corrente) è quantificabile fra 1,8 e 3,4 punti percentuali nel complesso dei primi sei anni di attuazione del piano, a seconda del grado di efficienza degli investimenti pubblici. Il che significa che un’errata selezione degli investimenti pubblici (associata a tassi di inflazione più elevati del previsto) può ridurre l’impatto macroeconomico del Pnrr a qualcosa come 0,2-0,3 punti percentuali in media all’anno: non esattamente una svolta epocale. Se guardassimo solo questo dato, dovrebbe essere a tutti chiaro che affannarsi a “spendere per spendere” dovrebbe essere l’ultima cosa da fare in questo momento.

 

Ma il Pnrr nasce per consegnare alle generazioni future un’Unione europea in grado di affrontare le sfide del secolo ancora agli inizi. In questa prospettiva, guardare al Pnrr in termini dei prossimi tre, quattro o cinque anni è gravemente fuorviante e figlio di un vetero-keynesismo che – sia detto senza polemica – speravamo consegnato al passato. Significa tradire completamente lo spirito del programma Next Generation Eu (e con esso la fiducia che ogni stato membro, Italia inclusa, ha riposto negli altri stati suoi pari). Anche in questo caso il Mef ci viene in aiuto valutando che nel lungo periodo (estendendo quindi l’orizzonte fino a un lontanissimo 2050) le riforme strutturali messe in campo dal Pnrr possono comportare incrementi nel prodotto presumibilmente pari a 0,3 punti percentuali all’anno (e, comunque, con elevata probabilità compresi fra un magrissimo 0,1 per cento e un meno deludente 0,5 per cento all’anno). Detto in altri termini, solo nella più rosea e ottimistica delle ipotesi, è lecito immaginare che il Pnrr ci consenta di ridurre significativamente se non proprio di azzerare quella che è una delle nostre debolezze di fondo: un tasso di crescita del pil potenziale inferiore, fino a ieri, per poco più di un punto percentuale all’anno a quello della media dell’Eurozona o dell’intera Unione. Una debolezza che trasforma la nostra seconda fonte di debolezza – l’abnorme debito pubblico – in un pericolo per noi e per gli altri.

 

Il che, per un verso, ci ricorda che il Pnrr da solo non basta e non basterà a tirarci fuori dalla situazione in cui ci troviamo e, per altro verso, ha una sola implicazione. È essenziale che la meritoria valutazione dei progetti anticipata dal ministro competente sia, per quanto possibile, oggettiva e severa. Non abbiamo bisogno – come si sente dire – di spendere ogni centesimo del Pnrr. Abbiamo bisogno che ogni centesimo del Pnrr sia speso nei termini della massima efficienza. Non basta che i progetti “non siano pessimi”. Devono essere “perfetti” (o quasi). Ciò inevitabilmente comporterà l’accantonamento di un numero più o meno rilevante di progetti. La loro sostituzione – che non è, ovviamente, un atto dovuto – non potrà che ispirarsi, anch’essa, al criterio della massima efficienza (che, per inciso, non sarebbe perseguibile limitandosi a sostituire investimenti con trasferimenti). Se così non fosse, tanto la serietà quanto la trasparenza che il momento richiede si attenuerebbero fino a svanire. E con esse la nostra aspirazione a contribuire a plasmare il futuro dell’Europa.

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