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L'editoriale del direttore

Sul Pnrr si è accesa la macchina delle chiacchiere del governo Meloni. Come uscirne

Claudio Cerasa

Patti e futuro. Il rapporto dell'esecutivo con l’Europa riguarda l’affidabilità di un paese, non di un partito. Il vero rischio del Piano? Diventare il simbolo del Panico Nazionale sulla Reputazione di una Repubblica

Un governo armato di buone intenzioni, desideroso di salvaguardare la sua reputazione, che cerca in tutti i modi di non sfigurare di fronte ai propri partner internazionali. Ma che di fronte ai primi guai, di fronte ai primi seri pasticci, decide di mettere in moto la macchina delle chiacchiere, piuttosto che la macchina dell’efficienza, per dimostrare di non essere responsabile dei problemi con cui deve fare i conti, anche a costo di mettere in evidenza in modo cristallino la dialettica, all’interno della maggioranza, tra una parte politica impegnata a trovare delle soluzioni, con molta fatica, e un’altra parte  impegnata invece a trovare un modo per scaricare sulla testa del presidente del Consiglio la responsabilità di eventuali fallimenti.

Senza rendersi conto che ciò che c’è in ballo nella suddetta partita non riguarda la reputazione di un singolo partito ma più modestamente la reputazione di un intero paese. Il dibattito che si è aperto da qualche settimana a questa parte sul futuro del Pnrr, dove Pnrr sta per Piano nazionale di ripresa e resilienza ma potrebbe stare anche per Panico nazionale sulla reputazione di una repubblica, è la perfetta cartina al tornasole del governo guidato da Giorgia Meloni. Un governo che dopo aver costruito buona parte della sua buona reputazione in Europa declinando l’agenda del non farò – non uscirò dall’euro, non spenderò a caso i soldi dello stato, non abbandonerò l’Ucraina, non mi allontanerò dall’atlantismo, non combatterò l’Unione europea, non sarò come Salvini – si ritrova ora costretta a fare i conti con una nuova fase all’interno della quale il farò, la fase costruens, fatica a trovare una sua affermazione a livello europeo.

I ritardi sul Pnrr – secondo la Corte dei conti, se nel calcolo non si considerano le voci di spesa di Transizione 4.0 e dei bonus edilizi, l’Italia fino a oggi è riuscita a spendere solo il 6 per cento dei fondi – indicano alcune problematiche precise, che coincidono con i problemi più gravi che deve affrontare il governo. Punto numero uno: che strategia ha in Europa Giorgia Meloni? Il discorso vale sul Pnrr, perché mentre il governo sostiene di voler rimodulare il piano, la Lega dice addirittura di volerlo “ridimensionare”, non c’è una sola riga di rimodulazione inviata dal governo alla Commissione europea, cosa che invece ha già fatto la Spagna di Sánchez che ha fatto avere alla Commissione europea un articolato dettagliato per ridefinire i tempi di alcuni progetti.

E la direzione del governo sul Pnrr, in fondo, non è diversa da quella che il governo ha mostrato su altre partite europee molto importanti: le politiche sull’immigrazione, le politiche sugli aiuti di stato, le politiche sul Patto di stabilità, le politiche sul motore termico. Filo conduttore, come direbbe il mitico Quelo interpretato da Corrado Guzzanti: “C’è grossa crisi, qua non sappiamo più quando stiamo andando sulla Terra”. Il secondo problema, che pare purtroppo non interessare al governo, è che intorno al Pnrr si gioca una battaglia che va ben al di là della credibilità di un partito, di un leader o di un ministro.

E quella battaglia coincide, come si diceva, con la reputazione dell’Italia di fronte a una sfida che sarebbe stupido definire “l’ultimo treno del paese”, è vero, ma che sarebbe altrettanto superficiale non considerare come decisiva per il nostro futuro. Non solo per l’effetto moltiplicatore sul pil che è destinato ad avere un Pnrr fatto con efficienza (dieci punti di pil dal 2022 al 2026 significa tra i due e i tre punti di pil all’anno) ma anche per tutta una serie di partite che il Pnrr si porta inevitabilmente con sé. E non ci vuole molto a capire che danno in termini di affidabilità significherebbe essere percepiti come un paese incapace di onorare i contratti firmati, incapace di rispettare i patti con l’Europa e incapace di dimostrare di tenere a  ciò per cui l’Italia si batte da anni, e per cui si sono battuti per anni anche i sovranisti.

E questi sono i bond, ovvero la creazione di un debito europeo, è qualcosa che può avere ancora un orizzonte nel futuro. Si potrebbe dire, come ha sostenuto due giorni fa Pier Ferdinando Casini, che per dare una mano al governo bisognerebbe costruire una grande tregua tra la maggioranza e l’opposizione, abbassando il livello di scontro tra le parti. Ma se si osserva con attenzione quello che sta accadendo in Europa si noterà senza troppa difficoltà che individuare nello scontro politico un fattore di instabilità del Pnrr rischia di essere solo un modo per offrire un qualche alibi alla macchina delle chiacchiere (in Spagna, il Pnrr è oggetto di scontro politico violento tra la maggioranza e l’opposizione, ma la Spagna, che è il paese che rispetto al pil gestisce la quota di fondi più elevata dell’Ue, è anche uno dei paesi più virtuosi d’Europa, sul terreno della gestione del suo Pnrr).

E dunque, sì, è possibile, come spesso accade all’Italia, che alla fine una soluzione verrà trovata, che una parte delle opere impossibili da realizzare entro il 2026 venga spostata all’interno dei fondi di coesione europea, che hanno scadenza nel 2029, e che un’altra parte dei progetti legati al Pnrr, come vuole il ministro Fitto, venga dirottata nei programmi legati al piano del RePowerEu, che verrà presentato alla fine di aprile. Ma quello che il governo fatica a comprendere, oggi, è che più passerà il tempo senza una strategia, senza una visione, senza una coerenza, senza una direzione, e più sarà semplice vivere in una fase in cui dominerà l’incertezza e in cui l’immagine che l’Italia offrirà di sé tenderà a essere simile a quella che ogni giorno sognano di alimentare, in Europa, i detrattori dell’Italia.

Ovverosia: un paese indisciplinato, irresponsabile, inaffidabile, che non riesce a usare i soldi che riceve, che non è in grado di mantenere le sue promesse e che di fronte ai primi ostacoli, di fronte al rischio cioè di trasformare il Pnrr in un generico Panico nazionale sulla reputazione di una repubblica, piuttosto che attivare una formidabile macchina dell’efficienza si ostina invece ad attivare una gigantesca macchina delle chiacchiere utilizzando una strategia perdente: scaricare sull’Europa i problemi che riguardano l’Italia. Come direbbe ancora il Corrado Guzzanti di Quelo: “Cara Meloni, la risposta non la devi cercare fuori, perché la risposta è dentro di te… anche se però è sbagliata!”.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.