Il lutto
Lawson, l'architetto del thatcherismo che inventò il mercato dove non c'era
È morto il padre delle privatizzazioni inglesi degli anni Ottanta. La sua eredità più duratura è nella trasformazione del rapporto tra stato e mercato: un processo che ha messo in moto e probabilmente determinato
Nigel Lawson, l’architetto delle riforme più radicali di Margaret Thatcher, è morto lunedì all’età di 91 anni. Pochi hanno lasciato un segno tanto profondo quanto il suo non solo nella storia del proprio paese, ma anche del resto d’Europa e oltre. Lawson era un uomo guidato dai principi: era fortemente convinto delle sue idee e determinato a metterle in pratica. La sua eredità più duratura non sta negli suoi atti più visibili e iconici, bensì in un processo di trasformazione del rapporto tra lo stato e il mercato che egli ha contribuito a mettere in moto, se non proprio determinato. Molti lo ricordano per il taglio delle tasse: da Cancelliere dello scacchiere, tra il 1983 e il 1989 portò l’aliquota marginale dell’imposta sul reddito personale dal 60 al 40 per cento, l’aliquota base dal 30 al 25 per cento e l’imposta sul reddito d’impresa dal 52 al 35 per cento. Ciò contribuì alla straordinaria espansione economica che ne seguì – il Lawson Boom – che consentì, assieme a quella che oggi chiameremmo eufemisticamente spending review, a portare il bilancio da un deficit del 2,9 per cento a un surplus dello 0,6 per cento. Altri ne sottolineano la caratura politica: fu uno dei pochi in grado di tenere testa alla Signora di Ferro, al punto che alla fine dovette lasciare l’amministrazione a causa dei dissensi sulla “poll tax” (l’equivalente dell’Imu, a cui diversi attribuiscono il declino della popolarità di Thatcher nell’ultima fase del suo governo) e sul regime dei cambi. Altri ancora metteranno all’indice le posizioni estreme che egli ha assunto negli ultimi anni, sulla Brexit o sul cambiamento climatico.
Eppure, la vera rivoluzione legata al suo nome è un’altra. Prima di Lawson, le industrie a rete – energia e telecomunicazioni in primis – erano organizzate come monopoli pubblici verticalmente integrati. Dopo Lawson e a causa di Lawson, da Londra è partito un processo di riforma che ha investito il resto d’Europa e molte altre nazioni. Intendiamoci: l’inefficienza delle imprese pubbliche era stata, fin da subito, nel mirino di Thatcher. Ma fu Lawson, da segretario dell’energia (1981-1983) a tracciare il percorso e, prima ancora, definire l’orizzonte “ideologico” per le privatizzazioni e le liberalizzazioni (due termini, in quel momento e in quel contesto, inscindibili). Lawson affrontò la questione nel 1982 di fronte all’International Association of Energy Economists. “Non credo che il ruolo del governo – disse – debba essere plasmare il futuro della produzione e del consumo di energia. Non credo debba neppure essere quello di bilanciare domanda e offerta di energia. Il nostro compito è quello di stabilire una cornice all’interno della quale il mercato possa operare… Il ruolo del governo non è né indurre gli individui a prendere decisioni contro la loro volontà né sperperare il denaro pubblico sussidiando investimenti che sono già convenienti… Gran parte delle industrie energetiche nel Regno Unito sono di proprietà dello stato… La proprietà pubblica non è né una necessità vitale né l’unico possibile modo per regolare [il monopolio naturale ove esistente]”.
È su questa visione precisa e ambiziosa – e, per l’epoca, rivoluzionaria e isolata – che si innestò il processo di privatizzazione degli ex monopolisti. E fu la consapevolezza che tali colossi non potevano essere ceduti tal quali a indurre lo scorporo delle loro attività e la creazione di autorità di regolazione indipendenti, con l’obiettivo di disciplinare quella parte del mercato che aveva caratteristiche intrinsecamente monopolistiche (essenzialmente, le reti). L’attuale disegno di mercato è figlio di quell’esperienza. Dieter Helm, forse il più importante economista dell’energia britannico e certo non tenero verso Lawson, ne riconobbe in più occasioni l’importanza e lo definì una figura “torreggiante”. Nella sua autobiografia, “The View from No.11. Memoirs of a Tory Radical”, Lawson descrive perfettamente il clima di quegli anni e soprattutto esplicita il suo pensiero. La ragione delle privatizzazioni non era pratica (come, molti anni dopo, sarebbe stata in Italia, cioè in primo luogo generare gettito). Era politica: creare un “capitalismo popolare”. In retrospettiva, spiega Lawson, “la critica più seria fu che il governo si era concentrato troppo sulla proprietà e troppo poco sulla concorrenza… Io ero convinto che fosse necessario privatizzare il più possibile e il più rapidamente possibile; e questo avrebbe messo maggiore pressione sulla concorrenza e altri cambiamenti strutturali”.
Le privatizzazioni furono il gioiello della corona di una strategia esplicita e consapevole. Che, peraltro, fu funzionale anche a rompere la forza di ricatto dei sindacati del settore pubblico facendo venire meno la leva monopolistica delle aziende dove lavoravano. La privatizzazione del settore energetico fu strumentale a ridurre la dipendenza dell’economia britannica dal carbone, e quindi il potere di interdizione dei minatori. Anche qui, la lezione per l’oggi non potrebbe essere più attuale: la via per la sicurezza non può passare per l’autosufficienza o, come va di moda dire, l’indipendenza energetica. Il retaggio più duraturo di Lawson sta, insomma, nell’avere letteralmente inventato un mercato dove non c’era. Egli diede così inizio a una storia di successo che ha cambiato non solo un paradigma politico e industriale, ma anche il modo in cui la generazione di economisti industriali successiva a Lawson si è posta in netta discontinuità rispetto a quella precedente. Questa cesura – un prima e un dopo – emerge anche da un fattore casuale legato alla sua scomparsa. Lawson se n’è andato proprio quando l’aliquota dell’imposta sul reddito d’impresa aumenta per la prima volta da cinquant’anni, passando dal 19 al 25 per cento (la riforma è in vigore dal 1 aprile). Di più: Lawson si spegne esattamente dieci anni dopo Margaret Thatcher (8 aprile 2013). Ognuno dia il peso che vuole alle coincidenze. Ma per lui, che era un uomo spiritoso, è il modo di congedarsi con ironia da un mondo che non è più il suo.
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