(foto Ansa)

la fiera a verona

Il vino cambia il mondo. Idee foglianti per accompagnare il Vinitaly 2023

Camillo Langone, Paola Peduzzi e Stefano Cingolani

Il bere dolce dello spritz, un preavviso della fluidità sessuale. Il salutismo e il biologico che entrano nella bottiglia. E poi l’Europa e il commercio, i gusti che si evolvono, l’industria, il made in Italy e il trionfo del glocal

Non so se il vino può cambiare il mondo ma so che il mondo può cambiare il vino. Perché il mondo è più forte del vino. Il vino però anticipa dei fenomeni: il fenomeno dell’indifferenziazione, del gender fluid, non è nato con Alessandro Michele (ve lo ricordate?) e le sfilate di Gucci (ve le ricordate?) in cui veniva meno la differenza uomo-donna. Io vidi nascere il disastroso fenomeno (disastroso anche ai fini demografici, direi) non guardando le sfilate ma guardando gli spritz: li bevevano maschi e femmine indifferentemente. Lo spritz è un bere dolce o quantomeno dolciastro. Questo è un momento di crisi del vino dolce, che non attira più perché viene considerato il vino della nonna, un vino gozzaniano, ma ugualmente si beve vino dolce, o se non dolce dolciastro: purché non sia dichiarato tale. O per l’appunto spritz, che secco proprio non è. Ognuno ha i suoi recettori: al contrario di quello che percepisce una mia amica io il Negroni lo percepisco dolce e perciò quando me lo faccio fare al posto del Martini chiedo il Punt e Mes, ossia un vermut un poco più amaro. Altrimenti nel tumbler mi ritrovo il bitter che non è davvero amaro, il Martini che è davvero dolcissimo... 

 

Si beve vino dolce, o se non dolce dolciastro, purché non sia dichiarato tale e dunque si beve prosecco, vino di straordinario, enorme, sesquipedale successo, che non è secco. E non perché non possa esserlo ma perché il disciplinare impone che non lo sia. Io sono nemico del prosecco ma amico di grandi produttori di prosecco e questo mi crea qualche difficoltà, preferirei parlare d’altro... Sono convinto che il prosecco, o glera che dir si voglia, sia un’uva mediocre: e da un’uva mediocre che cosa caspita puoi ricavare? Però un mio amico, appunto uno dei migliori produttori di prosecco, ha voluto, quasi per sfida, produrre un prosecco davvero secco. Un prosecco non autorizzato e perciò sull’etichetta non c’era scritto prosecco: il consorzio un prosecco davvero secco, a residuo zuccherino zero, non lo tollera. Ebbene, quello è stato il primo prosecco bevibile della mia vita, ma era un prosecco-non prosecco... Aggiungo che i bevitori di champagne (io non lo sono, spero lo si sappia) mi informano che negli ultimi anni anche questo liquido francese sta diventando sempre più dolce. Poi c’è il fenomeno degli amari, intesi come liquori da fine pasto (oltre che da fine fegato). L’amaro non è vino ma è comunque alcol ed è tornato ad avere una grande diffusione. E anche gli amari sono dolci, pieni di zucchero. Così come il prosecco non è secco, l’amaro non è amaro: un complotto diabetizzante.
 Se non tutti bevono amari, tutti mi sembrano bere spritz. Quando ho iniziato a vedere i maschi trangugiare beveroni arancioni mi sono chiesto: come mai questi uomini bevono una cosa del genere? Non si vergognano? A Brescia vedevo bere il pirlo, una specie di spritz però almeno rosso, fatto col Bitter Campari, un po’ più amaro dell’Aperol, e col Franciacorta, un po’ più secco del Prosecco. Ma nel resto d’Italia, a cominciare da Padova, spritz arancione a fiumi. Com’era possibile tutto ciò? Era un preavviso: anche i recettori stavano diventando unisex. Sappiamo che le donne hanno sulla lingua recettori diversi dagli uomini, specialmente le donne giovani, specialissimamente le donne incinte o che allattano. Servono a identificare più velocemente l’amaro, causando repulsione immediata: perché l’amaro è il sapore del veleno e le donne devono garantire salute del feto e dolcezza del latte. Vale anche per i bambini, che verso l’amaro hanno un rifiuto totale. Ai bambini piace il sapore dolce perchè il latte materno è dolce. Ecco perché la presente dolcificazione del gusto è sia una femminilizzazione sia una infantilizzazione. Non ci sono più gli uomini di una volta, quelli che bevevano vini austeri, aggettivo pressoché estinto e non a caso. Era motivo di vanto mascolino bere vini duri, massicci, proibiti alle signore. Magari di quei vini che la controetichetta incoraggiava ad abbinare “a piatti di cacciagione”. Ma chi la mangia più la cacciagione? Noi felici pochi, pochissimi… Se un produttore punta ancora sull’abbinamento col selvatico non penso abbia un grande futuro. 

Il bere dolciastro ha vinto contro il bere virile e così il vino ha anticipato la fluidità sessuale, è stato in qualche modo un segnale. Altro macrofenomeno dei nostri anni è il salutismo, la cura del corpo, il culto del corpo che ovviamente è nemico del culto del vino. Da quando esistono le statistiche sappiamo che il consumo di vino è in calo costante. Una volta il vino era l’indispensabile nutrimento per le persone costrette a lavori pesanti. Un mio prozio, contadino lucano, beveva una bottiglia di vino a pasto. Quell’Aglianico era diverso dall’Aglianico di oggi, sicuramente aveva una gradazione più bassa. Negli ultimi decenni l’alcol nel vino non ha smesso di aumentare e questo è l’esatto contrario di ciò che servirebbe. In parte è colpa del cambiamento climatico: fa sempre più caldo e l’uva è sempre più zuccherina. Io sono solito molestare i miei amici produttori esortandoli a raccogliere prima, e però mi rendo conto che non si possa raccogliere a giugno. Un po’ prima si può vendemmiare, molto prima no, altrimenti l’uva è immatura e nel bicchiere ci ritroviamo un vino verde. Un po’ è colpa degli impianti. Verso la fine del Novecento si è cominciato a piantare vigneti molto fitti, con tantissime piante per ettaro, affinché ogni vite producesse pochi grappoli dal succo molto concentrato. Estati più calde e grappoli più ricchi non possono che portare a vini di alta gradazione, non proprio ideali per l’alimentazione e la vita di oggi. Dunque il salutismo ha fatto molto male al mondo del vino, facendo calare i consumi, ma potrebbe fare anche un poco di bene, facendo calare le gradazioni. Se soltanto ci si riuscisse.

 

Ambiente e sostenibilità sono altre parole che avanzano e invadono e modificano il vino: prima di tutto hanno modificato le etichette ormai piene di bollini, di fogliolini, di diciture del tipo “vino biologico”, “vino biodinamico”... Ci sono differenze, il vino biologico può essere benissimo un vino industriale mentre il vino biodinamico tende all’artigianale, ma l’ondata è la stessa. Spesso li chiamano vini naturali, aggettivo usurpato essendo il vino quanto di più culturale. Il vino naturale non esiste, il vino in natura non esiste, in natura quasi non esiste nemmeno la vite... Il grande produttore abruzzese Francesco Paolo Valentini dice che il vino naturale è l’aceto, battuta fantastica a patto di ricordarsi che nemmeno l’aceto è naturale... Il mio padrino di cresima è uno dei migliori produttori di aceto balsamico reggiano, secondo noi migliore di quello modenese (ovviamente a Modena non sono d’accordo), e posso dire che l’aceto balsamico è un fatto ipertradizionale, iperstorico (si fa risalire addirittura a Matilde di Canossa), dunque iperculturale. Le acetaie familiari si tramandano di generazione in generazione, per via matrilineare perché specie in passato erano parte della dote femminile. Il vero aceto balsamico non è in vendita: si può ereditare oppure regalare. Le famiglie tradizionaliste di Reggio e di Modena lo usano a tavola ma non quotidianamente, nei giorni di festa, e ne fanno dono agli amici per Natale o per il Santo Patrono. Tornando al vino, i vitigni con la più alta percentuale di natura appartengono alla famiglia del lambrusco, a cui forse bisogna aggiungere il raboso. Sono queste le uniche viti davvero indigene, derivanti dalla vitis silvestris presente, ab immemorabili, ben prima dell’uomo, nelle foreste che ricoprivano la Val Padana. Mentre gli altri vitigni definiti con un certo ottimismo autoctoni vengono dalla Grecia e prima ancora dal Caucaso. E comunque la vite del lambrusco che troviamo nei campi d’Emilia e Lombardia non è la vite che allignava in quelle selve arcane: innanzitutto perché in natura non esistono le vigne. Nei boschi la vite è una pianta lianosa che cresce attaccata agli alberi, presenza sporadica che produce pochi grappoli piccoli, con acini piccoli. Quindi le vigne, anche quelle cosiddette naturali, anche quelle allevate dai più estremisti, dai più settari fra i vignaioli, sono antropizzazione pura. Altra cosa: il 999 per mille delle vigne, forse pure il 9999 per diecimila, è formato da viti innestate. Sottoposte a questa pratica per scampare a un insetto mortifero chiamato fillossera. Non tutti hanno potuto studiare agraria come ho potuto fare io (sono un privilegiato) e allora lo dico in parole poverissime: nella vite innestata le radici sono di una pianta e la parte aerea, i rami, le foglie, i grappoli, sono di un’altra pianta, appartenente a un’altra varietà. Qualcosa di profondamente, violentemente innaturale.

 

E non parliamo della vinificazione. Io sono un paladino della rifermentazione in bottiglia che viene spesso definita “metodo ancestrale”. Sono andato a studiarlo questo metodo ancestrale: l’aggettivo fa pensare ai primitivi, a chissà quali remote popolazioni, ai camuni, ai preromani… Solo che il metodo ancestrale si è diffuso a fine Ottocento: è il metodo del bisnonno. E’ vecchio ma non è antico. Perché la rifermentazione in bottiglia necessita tanto per cominciare di una bottiglia, e le bottiglie di vetro prima dell’Ottocento costavano un mucchio di soldi. A Murano non soffiavano bottiglie per i contadini, producevano bottiglie bellissime, costosissime e fragilissime, non potevi metterci il lambrusco! Quindi il cosiddetto metodo ancestrale, proprio quello utilizzato da molti produttori di vino cosiddetto naturale, è stato reso possibile dal vetro industriale: solo l’industria poteva abbattere il prezzo delle bottiglie. Ancora qualche decennio fa nelle cantine le bottiglie scoppiavano di frequente. Adesso  esistono strumentini, che il povero bisnonno non aveva, capaci di misurare la presenza di zucchero nel vino da imbottigliare. Siccome lo zucchero determina la futura pressione, usando gli strumentini non si rischiano esplosioni. L’ultima bottiglia che mi ha causato una doccia fuori programma l’ho stappata qualche anno fa, era di un contadino evidentemente ancora ignaro dell’esistenza degli strumentini (oggi finanche su Amazon, a prezzi bassissimi).

 

Vogliamo parlare di autoclavi? Meglio di no. Se entri in una cantina dotata di autoclavi senti subito di essere in un’industria, magari aerospaziale, con enormi macchinari a forma di missile, metallici, scintillanti, elettrici e informatici, controllati da computer che a loro volta controllano pressione, temperatura, tutto. Sarà mica naturale un’autoclave... Eppure i vini bio passati in autoclave non mancano. Un fenomeno che al contrario mi piace moltissimo è quello delle anfore. Dico fenomeno perché moda è una brutta parola e perché mi auguro che non passi di moda. Le anfore dovrebbero rimanere con noi a lungo perché hanno radici culturali profondissime. Sono presenti, per dire, già nell’armena Grotta degli Uccelli, lassù nel Caucaso. E’ la prima cantina a noi nota ed è preistoria. Nella Grotta degli Uccelli hanno trovato delle giare (quando si dice anfore in realtà si intende giare) e dentro le giare residui di vino. Molto invecchiato: all’incirca del 4.000 avanti Cristo, seimila anni fa. Perché mi piacciono moltissimo le anfore/giare? Perché poeticamente profumano di antico e perché realmente non profumano di nulla: la terracotta a differenza del legno delle botti non rilascia odori. Inoltre sono bellissime da vedere e da accarezzare, formose, calde, porose...

 

Un po’ di teologia devo sempre metterla, e ricordare che il primo e l’ultimo dei miracoli di Gesù prevedono il vino. Fu una scelta precisa, non un caso. In quell’epoca in Palestina la bevanda alcolica più comune era la birra,  una birra senza luppolo, da supporsi dolciastra, ma pur sempre ricavata dalla fermentazione dei cereali come la birra odierna. Dolciastra e, vista l’assenza di frigoriferi, calda. A riprova del suo non essere un pauperista, Gesù respinse il  bere popolare e scelse il vino che rappresentava il bere elitario, riservato ai momenti di festa, alle occasioni importanti. Alle nozze di Cana bevevano vino, non la squallida cervogia. Dunque il vino è storia della salvezza, storia della religione, storia del Mediterraneo, storia di tutto. E se l’alcol è una droga il vino è droga solo per il 12-15 per cento: la nostra civiltà è tutto il resto e forse anche quel 12-15 per cnto (vi dice niente Dioniso?).

 

Sto cambiando idea: è vero che il mondo cambia il vino, è anche vero che il vino cambia il mondo. O almeno lo regge. Penso ai terrazzamenti che si possono ammirare sui versanti di molte nostre montagne. Sono tanto belli quanto difficili da coltivare perché non si possono meccanizzare se non in misura ridotta. Come ogni uomo pratico sono a favore della vendemmia meccanica e però i terrazzamenti, scomodi giardinetti appollaiati, non la consentono. La vendemmia meccanica necessita di grandi vigne in piano. Alberto Paltrinieri, un capofila del lambrusco, teorizza che la vendemmiatrice meccanica sia addirittura meglio della vendemmia manuale. Ovviamente molti produttori, romantici o magari solo abitudinari, sono infastiditi da un’affermazione simile. Io l’ho perfezionata con questa formula: la vendemmia meccanica è migliore della vendemmia manuale fatta male. La vendemmia manuale fatta bene credo sia ancora insuperabile, ma abbisogna di molta manodopera. Che costa e non si trova. E non è poi così facile vendemmiare. Un conto se a farlo sono vignaioli, potatori, agricoltori, magari coi loro famigliari, un conto se si ricorre a mercenari, di regola svogliati e improvvisati. In quest’ultimo caso, dispiace, le macchine sono meglio. Dai terrazzamenti sortiscono vini costosi, e per le difficoltà di lavorazione e per la microscopicità delle cantine. Le aziende di montagna sono troppo piccole e spesso non hanno un senso economico. Hanno però sempre un senso geologico. I terrazzamenti reggono mezza Italia, in Valtellina, in Liguria, nella costiera amalfitana, in certe valli trentine e altoatesine senza terrazzamenti viene giù tutto. Anche in Val d’Aosta e in alto Piemonte ce ne sono di fantastici. Il vino salva il territorio. Una vigna è più bella di un palazzone o di un capannone. Cosa sarebbe della Toscana o del Veneto pedemontano senza le vigne? Il richiamo del vino dal punto di vista turistico è portentoso e il turismo del vino è più ricco del turismo medio. Fate caso al numero di ristoranti stellati che ci sono in Langa. Là dove vengono prodotti grandi vini, o anche solo vini costosi, ci sono ristoranti per turisti benestanti. Il vino in Italia viene prodotto dappertutto, anche in provincia di Rovigo, anche in Molise, ma dove non esistono grandi vini riconosciuti non c’è grande turismo, non ci sono grandi ristoranti, non ci sono grandi alberghi, e tutti guadagnano pochissimo, non solo i camerieri, anche i proprietari.

 

L’Italia in origine si chiamava Enotria, la terra del vino: il vino da noi è ovunque e ovunque c’è vino buono. Quindi dobbiamo berne di più: è una forma di patriottismo. Mi dispera notare che a pranzo la gente beve acqua. Quando ordino una bottiglia mi guardano strano: un tipo che beve vino a pranzo! Addirittura una bottiglia, il beone! Nel pomeriggio bisogna lavorare, dicono i commensali virtuosi e restii, ma io ho bisogno di bere proprio perché nel pomeriggio bisogna lavorare. Se devo scrivere (di mio cercherei di non farlo, sono neghittoso, accidioso, ma ogni tanto mi tocca) il vino mi fornisce entusiasmo. Invito a bere più vino perché è il bere più italiano e più culturale che ci sia. Non come il bere cocktail. Ovviamente anche fra shaker e misurini c’è una cultura ma è molto più recente e non ci appartiene se non in misura minima col Negroni inventato a Firenze da Fosco Scarselli, barman del caffè Casoni, su richiesta del conte Camillo Negroni appena tornato dai superalcolici Stati Uniti. Era l’inverno 1919-1920... Il cocktail è un altro pianeta ed è un pianeta anglofono, oltre che epaticamente letale. Il cocktail è un alieno mentre il vino è un intimo, legato al nostro territorio chilometro per chilometro, provincia per provincia, dal nord al sud isole comprese. Consideratelo un pilastro della civiltà, uno strumento, se non di cambiamento, di salvamento del mondo.
Camillo Langone



Il rapporto tra vino ed Europa ha una storia molto antica, importante. L’Europa è il più grande produttore di vino del mondo, e il vino ci aiuta a spiegare alcune cose dell’Europa che ho scoperto in questi anni lavorando sul mondo europeo e che però ancora in gran parte ci sfuggono. 

La prima è che spesso l’Europa non la capiamo, ne parliamo male e non ne comprendiamo alcuna logica.  La seconda è che l’Europa è una superpotenza, che viene trattata dagli altri paesi come una superpotenza. E invece noi che l’abitiamo e la viviamo non la trattiamo come una superpotenza.  La terza l’ho scoperta studiando il vino: ho sempre pensato che l’Europa fosse di materia solida e invece ho capito che è di materia liquida.

 

Uno degli episodi più recenti da annettere alla sfera dell’Europa cosiddetta cattiva è la querelle tra il prosecco e il Prošek, un vino croato che non c’entra niente con il prosecco: prima di tutto non ha le bollicine, è come un passito, un vino da dessert, e fa parte della cultura croata. La Croazia è entrata nel 2014 nell’Unione europea e da allora cerca di far passare l’utilizzo della parola Prošek: fino a un anno e mezzo fa l’Europa gli ha detto di no. Poi ha preso in considerazione la cosa, non ha ancora deciso, però intanto il dibattito si è aperto. Si è aperto perché ovviamente crea grandissima confusione il fatto di chiamare in un modo simile due cose che di simile hanno appunto soltanto il nome, non c’entrano niente una con l’altra, e ovviamente i produttori di prosecco dicono: “Ma perché dobbiamo creare questa confusione inutile sul mercato?”. I più liberisti sostengono che il consumatore non è scemo, si accorgerà che il Prošek non è il prosecco, però gli altri rispondono: “Sì, certo, poi te ne accorgi. Però intanto basta solo una bottiglia di Prošek venduto o comprato come prosecco per creare un danno economico, ne basta una sola”. 

C’è un’altra versione che aiuta a spiegare di più l’Europa alla luce di questa querelle. L’ho letta in un articolo di Jason Horowitz, il corrispondente in Italia del New York Times, che è andato nelle valli del prosecco, si è imbattuto in tutti gli arrabbiati e poi ha trovato una famiglia di produttori che invece ha detto “Il Prošek non potrà farci tanto male, perché tanto il prosecco è già morto”. Forse è vero: il prosecco è morto, è già diventato un prodotto che nelle migliori delle ipotesi è venduto tantissimo, ma costa sempre meno e quindi i ricavi non sono più così importanti, oppure è un ingrediente dello spritz. Così ho pensato che in realtà l’Europa con questa presa in considerazione del Prošek, sta cercando di attestare una cosa che è già successa, e anzi suggerisce che è il momento di rilanciare, di riposizionare il prosecco, perché ormai è un prodotto che, per come è fatto, come è chiamato, come è utilizzato, è morto: quindi tanto vale ricominciare da capo. Questo per dire che a volte l’Europa non è soltanto punitiva. E’ anche un’occasione: legittimare quel Prošek, posto che si arrivi a farlo, implica una ripartenza per quest’altro prodotto che è comunque in difficoltà.

Parlare male dell’Europa o non capirla è una costante. Vi ricorderete forse come è cominciata la questione dei vaccini. In tanti nel febbraio-marzo di due anni fa pensavano: “Perché non sono inglese, perché non sono americano, perché vivo in Europa dove c’è una negoziatrice che capisce poco di vaccini, dove devo stare ad aspettare la solidarietà con gli altri paesi, dove la Commissione europea non è in grado neanche di fare dei contratti e ci stanno fregando tutte le dosi, perché sono europeo quando essere europeo non conviene minimamente”. Sappiamo com’è andata a finire: la storia e un po’ di pazienza ci hanno spiegato che in realtà eravamo i più fortunati. Non so se qualcuno oggi invidia gli inglesi, io francamente non li invidio e non invidio neanche gli americani, con la loro politica protezionista sui vaccini. Anzi, sono molto contenta di essere europea, di essere cittadina di un’Europa diventata la farmacia del mondo, dove già un anno fa era stata vaccinata la stragrande maggioranza della popolazione. Ma penso di essere l’unica ad avere questa percezione. A chiunque chieda, nessuno mi risponde mai “sono fortunato a essere europeo”. Credo che sia così per una suggestione ormai sedimentata, perché nell’immaginario l’Europa è sempre strega e non è mai madre.

 

Il prosecco è un caso, ma ce ne sono tanti altri. Qualche tempo fa aveva avuto un certo impatto e aveva suscitato molte polemiche una puntata della trasmissione tv “Anni 20” perché aveva proposto un servizio che metteva insieme tutti i cliché e le fake news sull’Europa alimentare condensandoli nell’espressione “l’Europa ci fa mangiare da schifo”. Fondamentalmente parlava delle larve essiccate, le “larve della farina”, che vengono utilizzate per le barrette proteiche e per i biscotti, e il succo era appunto “l’Europa ci fa mangiare le larve”. In realtà erano stati produttori italiani a chiedere di introdurre l’utilizzo delle larve perché in gran parte del mondo gli insetti, molto proteici, fanno parte del nutrimento. Era una richiesta venuta dalle aziende e l’Europa si era solo premurata di regolamentarla e di mettere insieme tutte le regole di garanzia e di qualità che servono per il cibo europeo. Non era una punizione, era un’opportunità.

 

Gli esempi sono tantissimi, dagli hamburger che non sono hamburger al tonno vegetale. Ma anche lì: è una richiesta che viene dalle aziende, l’Europa, non senza qualche litigio, ha cercato di regolamentare una richiesta del mercato, non ha cercato di imporre niente. C’è stata poi la polemica sul vino “annacquato”. Alcuni produttori hanno chiesto all’Europa di abbassare il tasso alcolico dentro il vino, che non vuol dire metterci l’acqua. Ma la Commissione europea ha dovuto scriverlo, ha dovuto specificarlo, “non stiamo mettendo l’acqua nel vino, stiamo soltanto utilizzando delle nuove tecnologie, dei nuovi processi per abbassare la gradazione alcolica del vino”. Tutto questo per dire che buona parte delle cose che fa l’Europa non vengano capite, non vengono neanche raccontate bene, tanto che sembra sempre scandaloso quello che fa questa Europa strega, mentre si tratta molto spesso dell’attestazione di una cosa che sta succedendo, o addirittura di un’opportunità.

Ovviamente ci sono molte ragioni ideologiche per cui l’Europa è trattata in questo modo. La prima dev’essere il timore di una cosa che sembra un po’ fuori controllo perché sovranazionale, e quindi alimenta le nostre paure recondite. Quello che mi stupisce sempre è che mentre noi siamo qui a discutere di larve e di bevande vegetali o di vino annacquato o di vaccini e contratti, gli altri paesi ci trattano da superpotenza, ci attaccano in un modo che dà il senso che siamo pericolosi, che siamo ingombranti, che siamo qualcosa che se gli altri paesi riescono un po’ a ridurre, tanto meglio. Anche qui gli esempi sono numerosi. Vladimir Putin tesseva già la sua tela antioccidentale dopo l’invasione dell’Ucraina nel 2014, quando ha fatto passare una legge per cui soltanto i vini prodotti in Russia possono essere chiamati champagne. Ovviamente lo champagne russo non c’entra niente con lo champagne, segue tutto un altro procedimento, ma questa legge impedisce ai francesi, in questo caso, di vendere in Russia il vino con il nome di champagne che è prodotto nella regione che si chiama Champagne. Ventimila aziende hanno dovuto cambiare la loro etichetta per poter vendere in Russia lo champagne. E qual è la regione che produce di più questo champagne che non è champagne? La Crimea. Cioè quella che la Russia si è annessa con un referendum che nessuno ha riconosciuto. E’ per questo che già allora avremmo dovuto cominciare a pensare di essere una superpotenza ed esercitare questo potere.

Per un certo periodo, anche l’America ci ha danneggiato. L’Amministrazione Trump aveva messo dei dazi anche sul vino, fino al 25 per cento su alcune produzioni. Quei dazi sono stati sospesi e poi aboliti da  Biden, ma il danno economico c’era già stato. Ed è stato provocato da un amico, da un alleato. 

 

Gli attacchi, come si vede, sono tanti e di varia natura, di varia ideologia, di varia finalità. L’Europa sta cercando di reagire e non da adesso, ovviamente: le ultime direttive che riguardano il vino e la costituzione di un mercato più competitivo dal punto di vista europeo hanno già una decina d’anni. Sta diventando a livello globale molto importante il cosiddetto “made in Europe”, che è un’idea che a noi europei fa un po’ ridere, non si sa perché. Però il “made in Europe” è quello che farà o potrebbe fare la differenza perché è la forza europea, ciò che nei momenti di difficoltà, quando dobbiamo redistribuire gli immigrati, quando dobbiamo distribuire i vaccini, ci pesa, perché dobbiamo essere solidali, ma che è in realtà la nostra grandissima forza ed è il motivo per cui tutto quello che viene fatto a livello di “made in Europe” sta avendo un grandissimo successo. Ancora una volta, nel bene o nel male, noi fuori dai nostri confini, fuori dal nostro battibecco quotidiano sull’Europa, siamo percepiti come forti e come importanti.

 

E questo è insomma quello che io ho capito. Mentre ancora non ho capito gli entusiasmi iniziali degli inglesi per la Brexit e tanto meno i suoi sostenitori europei. Perché abbiamo perso tanti soldi con la Brexit, anche nel vino, e tanti soldi li ha persi il Regno Unito.  Ci sarà da litigare, ci sarà da discutere. Ci sarà da capire sempre, ogni volta, se l’Europa l’indovina oppure se sbaglia, o non capisce o non intercetta un cambiamento. Di solito sbaglia molto meno rispetto a quello che ci diciamo.  L’ultima cosa che ho capito è che ho sempre trattato l’Europa come una materia solida. E invece è liquida. L’ho capito leggendo una frase del nostro ultimo premio Nobel per la Fisica, Giorgio Parisi, che dice: “La differenza tra un liquido e un solido in linea teorica è piuttosto semplice: per deformare un solido occorre forza, per deformare un liquido, occorre tempo”.
Paola Peduzzi
(Questo è il testo dell’intervento di Paola Peduzzi all’evento del Foglio “Come il vino cambia il mondo” che si è svolto nell’ottobre 2021 in prossimità di Vinitaly Special Edition 2021)



Il vino nasce come oggetto e come prodotto dello scambio, e questo è un po’ il punto chiave sia per il presente sia per il futuro. Perché? Beh, vorrei cominciare con un paio di ricordi personali. Uno risale a qualche anno fa, un mio viaggio in Cina nel Guandong, dove ho visitato la fabbrica di un industriale italiano e sono stato invitato a cena in un ristorante dal manager cinese di questa azienda – il top manager deve essere cinese, poi magari non guida, ma controlla. Volevo essere gentile adeguandomi ai gusti e alla tradizione, allora ho chiesto di bere della birra. Lui mi ha guardato strano, ha detto “ma noi qui beviamo vino”. Poi ho chiesto le bacchette per mangiare, “ma noi mangiamo con le forchette”. Finito il pasto volevo del tè, a me piace il tè verde cinese, il tè bianco ancora meglio, “ma noi beviamo il caffè”. Poi mi ha guardato con tono un po’ alterato, e con un ghigno ha detto: “Non portiamo mica più il codino”. La cosa mi ha colpito, una battuta cattivissima, ho fatto la figura di Alberto Sordi che va con il casco coloniale e i desert boots in giro. Mi son chiesto, ma questo ha fatto lo spocchioso? Era il classico atteggiamento del nuovo ricco che dice, ma insomma, ma che volete da me? Oppure uno che rifiuta le proprie radici, nell’inseguire la modernizzazione concependola come una omologazione anche della Cina e del mondo asiatico al mondo occidentale? Nell’Ottocento, quando il Giappone si aprì, la direttiva dell’imperatore Meiji era “tecnologia occidentale, cultura orientale”, in particolare giapponese. Adesso invece è tecnologia occidentale, cultura occidentale, modi di essere occidentali e vestiti occidentali. Forse è così. O forse dobbiamo tornare al concetto precedente.

Del resto, la Cina è diventata un grosso produttore di vino, oltre a un grande consumatore di vino da tutto il mondo: nostro, australiano, americano, francese. Proprio in Cina c’è la più grande vigna del pianeta, nella regione di Yantai nella provincia di Shandong, sta sul Mar Giallo, che è quello che separa la Cina dalla Corea del Sud. In Cina il vino si fa da circa un secolo, dalla fine dell’Ottocento, naturalmente un prodotto di nicchia per ricchi, super ricchi. Un po’ quello che era stato anche nell’antichità. 

 

Poi un ricordo più recente, poco prima della pandemia, in Vietnam. Lì si comincia a produrre vino, oltre a consumarlo, e l’Italia è il principale esportatore di vino in Vietnam. E nel paese bevono il caffè, producono il caffè, è il secondo produttore esportatore al mondo di caffè. Allora mi sono chiesto, ma esiste ancora questa divisione tra il mondo della birra e il mondo del vino? Il mondo del tè e il mondo del caffè? In realtà non esiste più, non perché il caffè abbia soppiantato il tè o il vino la birra, ma perché è avvenuta una mescolanza, un mélange, per dirla alla francese, che non ha soppresso l’uno o l’altro, ma li ha incrociati, li ha messi l’uno e l’altro a confronto. La birra si diffonde tra i giovani in Italia, tra i giovani latini. Il vino conquista l’Asia, ha conquistato già l’America del nord. Sul New York Times non si parla altro che di vino. Adesso va molto il vino dell’Oregon, uno stato in cui sembrava che la vite fosse difficile da produrre. Naturalmente Chardonnay e Pinot noir, due tipi di vitigni adattabili a quel clima. Anche Wine Spectator dà al vino dell’Oregon uno dei punteggi più alti, una cosa difficile da immaginare fino a qualche anno fa, quando c’era sì il vino della California, ma fino all’Oregon non ci si arrivava. 

 

Il punto è: ci stiamo omologando, siamo ormai appiattiti con un gusto che si fa fondamentalmente simile, con tutti che ricercano più o meno gli stessi sapori? Non credo: sia il gusto sia la domanda, e quindi di conseguenza anche l’offerta, si sono ancor più diversificati. E’ vero, noi siamo quelli con la varietà maggiore al mondo, però non è vero che il Pinot noir è sempre lo stesso, quello che si fa in Galilea e quello che si fa in Borgogna, o quello che si fa in California: hanno un gusto diverso, sono diversi. Perché il vino è vivo, naturalmente, per cui la vite cambia col clima, cambia con il terreno. Anche dove si tende a standardizzare in qualche modo – una delle polemiche è questa, si standardizza il vitigno, Pinot, Chardonnay, Merlot… – la diversità prevale. Scambio e diversità vanno insieme. E per scambio s’intende la globalizzazione, che è il regno assoluto dello scambio. 

 

Lo champagne forse è il vino più conosciuto al mondo, è un simbolo. Ebbene, anche nella Champagne l’attenzione al territorio, anzi ai territori, è fortissima: nella parte sud della regione, quella che sta più vicino alla Borgogna, si fa uno champagne solo di Pinot nero, altrove il Pinot nero viene usato per essere assemblato insieme allo Chardonnay. E il piccolo produttore che prima mandava i suoi grappoli ai grandi produttori, a Reims, adesso fa il suo vino, lo costruisce, e manda anche i grappoli che gli avanzano ai grandi produttori. Quindi lo champagne è standardizzato? No, è una raffinata composizione di globale e locale. Perché il vino è l’essenza del glocal. E’ esattamente ciò che concentra questi due elementi, questi due modelli apparentemente contraddittori che invece tendono sempre più a convergere, e non solo nel mondo del vino. 

 

Come sta l’Italia all’interno di questo processo? E’ andata avanti in modo impressionante, negli ultimi trenta-quarant’anni. La crisi dell’etanolo dell’86 è stata un discrimine. Quasi sempre le grandi crisi lo sono, anche per il vino, se si pensa alla filossera alla fine dell’Ottocento, con il vino europeo, soprattutto quello francese, salvato dalla vite americana. Dopo l’86 tante cose sono cambiate: si produce meno vino come quantità, ma è aumentata la qualità. Il valore della produzione è salito moltissimo, e l’Italia negli ultimi anni ha superato la Francia come quantità e le si è avvicinata anche come valore. Questo balzo cosa vuol dire? Che il tessuto produttivo italiano è più forte e più competitivo? Sì per certi versi, no per altri, perché questo tessuto produttivo resta ancora ancorato al vecchio modello italiano del “piccolo è bello”. L’Italia si colloca ancora in una fascia intermedia, lontana dai grandi gruppi che si contendono il mercato globale. In testa troviamo il colosso francese Lvmh, che tra champagne, vini e liquori ha chiuso il 2022 con 7,1 miliardi di euro di vendite. Poi c’è il gigante americano Constellation Brands, il cui fatturato ha superato i sei miliardi di dollari. Quindi un gruppo australiano, Treasury Wine, un gruppo sudafricano, Distell Group, un gruppo cileno, uno inglese che fa soprattutto “spirits” ma anche vino. Poi troviamo finalmente il primo gruppo italiano, le Cantine riunite, quelle delle coop rosse di Reggio Emilia. E nella pattuglia dei primi 25 gruppi, quelli che superano almeno 150 milioni di euro di fatturato, otto sono italiani, cinque francesi. Naturalmente la Francia ha grandi gruppi che possono sostenere questo modello. Soprattutto ha una maggiore forza finanziaria, perché le banche investono molto di più nel vino di quanto non si investa in Italia. Però anche il modello francese ha un problema di impatto di fronte ai giganti globali, gli australiani, i cileni, i nordamericani, tra i quali Gallo, gli argentini, i francesi con Pernod, il gruppo che ha investito di più. Tra i grandi gruppi in Italia c’è solo Campari, che è italiano fondamentalmente: è quello dello spritz, ha messo insieme Campari e Aperol e ha venduto lo spritz in tutto il mondo. Un’operazione industriale molto interessante – anche se io non amo molto lo spritz, però non importa, tutti lo amano. Quindi la domanda è forte e l’offerta non solo si è adeguata, ma in qualche modo ha stimolato, ha rilanciato. Tra i produttori italiani ci sono aziende che hanno un volume, una massa significativa, ma anche l’ultimo rapporto di Mediobanca fotografa sostanzialmente una struttura dispersa.  La piccola dimensione e il capitalismo familiare, che sono croce e delizia del modello italiano, trovano nel vino lo specchio perfetto. Questo non vuol dire che l’impresa familiare deve scomparire, anzi: deve essere rafforzata, ma ci deve essere anche una maggiore concentrazione, ci devono essere aziende più grandi, e deve anche essere sostenuta da un modello produttivo nuovo. 

 

Quale? L’Italia dei distretti e poi delle filiere ha dato molto. Esiste un’Italia delle piattaforme, sul modello del web introdotto dalla rivoluzione digitale? Esiste una piattaforma del vino, perlomeno un’azienda che ha naturalmente il vino come suo core business, ma attorno a questo si organizza come una piattaforma?  Ci sono dei segnali interessanti. Ci sono aziende relativamente piccole che ormai tendono a offrire altro accanto al vino – derivato dal vino, vicino al vino: non solo ovviamente il brandy o la vecchia grappa, ma anche il vermouth. Il vermouth è tornato, non solo nei cocktail, ma anche come bevanda, come aperitivo, come digestivo. Ci sono aziende che hanno capito che prima bisogno fare il salto dall’export alla internazionalizzazione vera e propria. Questo significa che si deve avere un marchio riconoscibile, che si deve essere in grado di imporlo e di costruire una cultura aziendale attorno a questo marchio. Significa che si deve entrare nei mercati non solo portando le bottiglie di vino, le casse di vino, ma mettendo radici nei mercati dove il vino è in espansione: l’Asia in particolare, ma anche gli Stati Uniti e l’America in generale. E tutto questo richiede molti capitali, richiede investimenti e ha un livello di rischio molto elevato e ritorni probabili, magari altissimi, oppure no, tenendo conto che il vino di per sé è sottoposto a questi rischi. Il Barbaresco non viene prodotto tutti gli anni, ma va così per ogni altra cosa: le annate terribili distruggono ovviamente i produttori economicamente. Quindi attorno a un’azienda vinicola che possa competere bisogna che ci si organizzi in modo diverso, ma bisogna costruire anche un insieme, un sistema di sostegno.

 

Dall’indagine di Mediobanca si evince che gli investitori finanziari, cioè banche, assicurazioni e fondi, posseggono il 14 per cento delle vigne e delle aziende vitivinicole italiane. Un esempio interessante viene da quel che ha fatto il fondo Clessidra con Botter-Mondodelvino (diventato il terzo gruppo italiani) che oggi sta sotto il cappello della nuova holding Argea.   . Tuttavia la banca deve fare la banca, deve dare i soldi a un imprenditore che sa fare il vino, che lo conosce, che ha delle idee, che si organizza in modo moderno; non comprarsi la sua vigna e non sapere magari come gestirla. Da questo punto di vista vale più il modello francese: il grande capitalista che si compra le vigne e fa dei vini eccezionali, però li fa perché fa l’imprenditore. A ognuno il proprio mestiere: l’imprenditore del vino deve essere un imprenditore vero e proprio.

 

Il vino è glocal, lo è per forza di cose, forse lo è sempre stato, e questo è il processo al quale un po’ tutta la nostra economia si sta adattando. Questo significa appiattimento, standardizzazione? No, alla fine, l’individualità resta e anzi si rafforza nel rapporto con gli altri. Insomma, come Cavour che chiamò un francese, non per piantare il Merlot, ma per valorizzare il Nebbiolo e fare un Barolo eccezionale. Qualche esempio l’abbiamo anche nella nostra storia.
Stefano Cingolani

Di più su questi argomenti: