L'editoriale dell'elefantino
Perché la sovranità alimentare è una bufala, con tutto il rispetto per Agropoli
Il piano Mattei non so, ma il piano Artusi sarebbe urgente. Ecco perché per i sovranisti del pecorino urgono lezioni di alimentazione
Il piano Mattei non so, ma il piano Artusi sarebbe urgente. Spiace dirlo, ché si passa per antipatriottici, ma la sovranità alimentare è un po’ una boiata o una bufala, non nel senso della mozzarella di Agropoli. Meloni e Lollobrigida dovrebbero cortesemente fermarsi e riflettere, come hanno fatto per tante altre boiate, e con quel relativo successo che spiega non si dirà la loro egemonia ma certo una bella andatura nazionalpopolare. Ho autorità per interloquire perché sono romano, ma poi per le ascendenze anche siciliano, anche napoletano, anche marchigiano. E sono grasso, buon segno in fatto di alimentazione checché ne dicano i nutrizionisti della longevità inutile, insapore. Se mettiamo da parte i fasti della cucina piemontese, che però è la cucina di Borgogna rivisitata e incrementata di valore con i noti vini migliori d’Europa, Roma Sicilia Marche e Napoli sono il top dei top in fatto di cucina, credo (non se ne abbiano a male risotti e tortellini e cima genovese).
Mentre dovrebbe essere lecito dubitare, francoprodianamente, dei modelli climatici per il futuro, più difficile confrontarsi senza perdere la faccia e la gola, per i sovranisti del pecorino, con gli storici dell’alimentazione, cattedra fiorentissima nel paese del grande Piero Camporesi, cultore dell’italianità delle forme materiali e cibarie ma in un contesto che non prevede esclusivismi nazionali né per il latte né per Petrarca, e del grande Massimo Montanari, che ne sa una più del diavolo. Non si tolga nulla a Alberto Grandi, protagonista di una polemica molto divertente rilanciata dal Financial Times: il parmigiano originario si fa nel Wisconsin dove la sua leggerezza meno stagionata è stata preservata da una filiera primonovecentesca di italiani d’America, il pomodoro Pachino è un’invenzione tardiva, quasi ieri, il panettone lo dobbiamo alla ditta Motta e la sua produzione artigianale è una contraffazione geniale e talentosa (proto, ti prego: non correggere in talentuoso, che è un poco untuoso) della creazione industriale, mentre l’associazione di maiale uovo pecorino romano e pasta nasce molto lontano dalla Garbatella. La pizza napoletana invece mi sembra un unicum, il resto è focaccia.
Messe a punto provocatorie a parte, Montanari ha spiegato per tabulas che il cibo ha un rapporto sghembo con la natura e i confini naturali e etnici, ha una connotazione culturale che ne fa una continua reinterpretazione tecnica, il cibo è culturale e transnazionale come le élite della Ztl. Noi non mangiamo bacche, quello è cibo per i cinghiali nostri fratelli e coinquilini, noi non ci limitiamo a raccolta e predazione, trasformiamo attraverso i secoli e le diverse meticce culture, e Montanari non l’ha detto ma anche i grilli e il sintetico appartengono alla dimensione rigenerativa del setaccio e del fuoco, della cottura, dell’associazione degli ingredienti nella profondità della storia antropologica. Perché noi possiamo mangiare tutto, ma scegliamo, e in questo senso è accettabile escludere i bacarozzi in farina come io escludo, unico commestibile a me alieno, il cocco, ma non farei mai dell’aroma esotico insopportabile del cocco una questione di sovranità politica o commerciale. L’invenzione del fuoco è sovrana, caro Lollobrigida, l’alimentazione no.
Poi certo, non tutte le denominazioni sono “di origine inventata”, come celia il Grandi. Va bene stimolare le produzioni storicamente inculturate nel paesaggio agrario e gastronomico italiano, non si starà qui a sofisticare e gironzolare scavalcando i problemi di gusto sovrano con argomenti speciosi. Difendete materiali di base e cucina nazionale, è un compito ordinario di cui non necessariamente andare orgogliosi come delle Guerre di Indipendenza, basta farlo. Ma l’etichetta del mangiare e bere bene, o benone, o come ci pare, senza esagerazioni, è etichetta, non bandiera.