La presidente della Bce, Christine Lagarde (AP Photo / Michael Probst)

L'analisi

Non solo la Bce, per curare l'inflazione serve anche la politica fiscale

Guido Ascari e Riccardo Trezzi

Non si può continuare a ignorare il ruolo della domanda e a non coordinare la politica di bilancio con quella monetaria. Il tempo delle scelte è arrivato: prima però saranno le nostre narrazioni a dover cambiare

Come ha fatto l’inflazione ad aumentare così rapidamente nell’Eurozona? L’opinione più diffusa è che l’aumento dei prezzi è imputabile a due fattori: il primo sono i colli di bottiglia dell’offerta generati dal Covid, il secondo è lo choc energetico prodotto dalla guerra in Ucraina. Questa narrativa, dominante nell’ultimo anno, ha ripercussioni sul ruolo delle politiche monetarie e fiscali, ossia sulla gestione della domanda aggregata. Da un lato, infatti, ha convinto che i tassi possano rimanere relativamente bassi poiché il recente calo dei prezzi energetici, si dice, avrà effetti disinflattivi non solo sull’inflazione totale ma anche sulla componente di fondo. Dall’altro ha suggerito che il ruolo della politica fiscale sia quello di bilanciare le implicazioni recessive della stretta monetaria e dei prezzi energetici con sussidi di vario tipo. Questa narrativa poteva andar bene un anno fa, ma l’evidenza dei dati suggerisce ormai da mesi un ripensamento (come già spiegato sul Foglio del 17 dicembre).

 

A partire, infatti, dalla fine della scorsa estate una serie di contributi scientifici ha identificato un ruolo non secondario della domanda nelle dinamiche dell’inflazione in Europa. L’intuizione dietro questi studi è semplice: se gli choc negativi da offerta sono stati gli unici a determinare l’innalzamento dei prezzi, allora avremmo dovuto registrare anche una recessione, cosa che non è avvenuta proprio per il ruolo svolto dalla politica fiscale. A contributo di questa letteratura, in un recente studio abbiamo presentato un’interpretazione più complessa dell’inflazione nell’area euro in cui sia i fattori dell’offerta (colli di bottiglia, prezzi dell’energia), sia quelli della domanda (stimoli fiscali e monetari) concorrono alle dinamiche della produzione e dell’inflazione.

 

Il principale risultato del nostro studio è che il contributo relativo di domanda e offerta si è evoluto nel tempo (da cui la confusione nel dibattito). Nel dettaglio, mostriamo che lo choc in un settore (energia) è diventato sistemico e persistente proprio per la pressione positiva della domanda. Detto in altri termini, le imprese hanno potuto trasferire l’aumento dei costi dovuti all’energia ai consumatori aumentando i prezzi e preservando i loro margini perché la domanda è rimasta accomodante, cosa che non era ovvia un anno fa. Questo ha trasformato uno choc temporaneo ai prezzi del gas in uno persistente all’inflazione di fondo che oggi, mese su mese, viaggia al 7 per cento annualizzato per la zona euro e al 9 per cento per l’Italia. Del resto, questo è quanto si insegna nei corsi di macroeconomia base: in caso di uno choc negativo da offerta occorre trovare un compromesso tra stabilizzare l’attività economica e i prezzi. Nell’area euro abbiamo deciso di stabilizzare l’output e, non sorprendentemente, abbiamo pagato un prezzo in termini di inflazione elevata.

 

La recente letteratura ha importanti ripercussioni per le politiche monetarie e fiscali. Dato per assodato il ruolo della domanda nelle dinamiche dell’inflazione, ne segue che la politica monetaria dovrebbe agire per raffreddare lo squilibrio tra domanda e offerta. Non solo, ma ne segue che anche (e forse soprattutto) la politica fiscale ha un ruolo da giocare poiché le politiche espansive post Covid sono state un contributo attivo all’aumento dell’inflazione. Come tale, la politica fiscale dovrebbe oggi essere restrittiva e non remar contro l’azione della banca centrale (a tal proposito si ricorda che l’Italia ha chiuso il 2022 con un rapporto deficit/pil dell’8 per cento pur avendo un’economia in forte espansione e un’inflazione vicina alla doppia cifra). In altre parole, ciò che ha scritto recentemente Claudia Sahm sul Financial Times, parlando degli Stati Uniti: “La Fed da sola non può abbassare l’inflazione”, si applica anche all’Eurozona dove la spesa pubblica (al netto dei trasferimenti) è stata anche più generosa che negli Stati Uniti.

 

Non solo. I risultati della letteratura sono importanti anche alla luce di quanto accaduto in questi giorni negli Stati Uniti con il fallimento di una banca regionale. Il default di Silicon Valley Bank (Svb) ci dice che se l’azione della banca centrale non è accompagnata da un’azione altrettanto decisa di politica fiscale, la stabilità finanziaria del sistema può risentire del conseguente aumento dei tassi (aumento che è tanto più forte quanto più sola è lasciata la banca centrale). Per questo, quindi, se vogliamo uscire da questa fase di alta inflazione, la politica monetaria non deve rincorrere l’inflazione sottostimandone la sua dinamica, come un criceto sulla ruota, ma deve essere decisa per preservare la credibilità dell’istituzione e non dare spazio alla speculazione sui titoli di stato dei paesi più fragili e ad alto debito. Ma abbiamo anche bisogno di una correzione fiscale che contenga il deficit e comunichi ai mercati la volontà dei governi di cooperare. Il tempo delle scelte è arrivato: purtroppo temiamo che se si continuerà a sbagliare diagnosi, a ignorare il ruolo della domanda e a non coordinare la politica fiscale con quella monetaria, il costo finale di disinflazionare l’economia e riportare stabilità finanziaria sarà molto superiore a quanto dovuto.

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