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sfide e prospettive

L'azienda Italia, girandola di record che ha stordito i catastrofisti. E può anche durare

Marco Fortis

Un pil cresciuto complessivamente di quasi l’11 per cento negli ultimi due anni, più della media mondiale. Dopo la pandemia e oltre. Crescita, export, investimenti, occupazione: analisi di un nuovo boom italiano 

Avete presente l’economia italiana uscita dal tunnel del Covid-19? Un pil cresciuto complessivamente di quasi l’11 per cento in due anni, il 2021 e il 2022, in entrambi i quali è aumentato di più della media mondiale. Una economia nel quarto trimestre 2022 già dell’1,8 per cento sopra i livelli del quarto trimestre 2019 antecedente la pandemia, molto più reattiva di quelle di Francia, Germania, Spagna e Regno Unito a riprendersi dopo i lockdown. Un export di merci quasi del 9 per cento in termini reali più alto di prima della crisi e quasi del 20 per cento sopra i livelli del 2015, cioè dell’anno base delle nuove serie storiche Eurostat di contabilità nazionale.

Un sistema produttivo notevolmente progredito in termini di produttività e competitività, con ben 1500 prodotti in cui è tra i primi cinque posti al mondo per migliore bilancia commerciale con l’estero. E investimenti in macchinari e attrezzature aumentati a tassi record, sia prima sia dopo la pandemia, oggi del 40 per cento più alti in termini reali di quelli del 2015, cioè oltre 30 punti percentuali in più della Germania. Un paese con un tasso di occupazione che ha toccato percentuali storiche record, oltre la soglia del 60 per cento. E, per concludere, un debito pubblico che è quello cresciuto percentualmente di meno in valore nel triennio 2020-2022 tra le grandi nazioni del mondo. È davvero questa l’Italia di oggi? La risposta è sì.

 

Un’Italia che nel 2020-2021 non si è fatta mancare quasi nulla. Una economia che si è lasciata alle spalle gli zero virgola dei tassi di crescita del pil che avevano contrassegnato i primi quindici anni del nuovo secolo. Che per sette trimestri ha avuto come presidente del Consiglio una personalità di livello internazionale e del calibro di Mario Draghi, l’uomo che ha salvato l’euro. Un paese che ha enormemente recuperato credibilità e rispettabilità (sempre che ora non ci mettiamo in testa di litigare con la Francia una volta alla settimana). E che si è perfino tolto la soddisfazione di vincere manifestazioni sportive internazionali prestigiose come gli Europei di calcio e, per la prima volta nella storia, i 100 metri piani e la staffetta 4x100 alle Olimpiadi.

 

Nessun previsore ha azzeccato le stime sulla crescita economica italiana record avvenuta dopo la pandemia. Nessuno ha scommesso un euro su di noi né nel 2021 (quando la rapida e robusta ripresa del pil italiano fu a lungo non prevista e poi derubricata a semplice “rimbalzo”) né nel 2022 (quando fu da più parti previsto un crollo del pil italiano che invece alla fine è cresciuto di più di quello cinese). 

E “gufi” e catastrofisti sono andati avanti imperterriti fino all’ultimo a pronosticare dinamiche negative imminenti della manifattura e del pil dell’Italia che non si sono mai verificate, come mostra anche il dato positivo della produzione industriale di dicembre 2022: +1,6 per cento congiunturale su novembre. Un dicembre in cui, al netto delle attività minerarie e di energia elettrica, gas e acqua, la crescita tendenziale della produzione manifatturiera italiana è stata del 2 per cento rispetto al dicembre 2021, con punte del +18,1 per cento per la farmaceutica e del +13,5% per le macchine e gli apparecchi meccanici.  

 

Lo spiazzamento degli osservatori – e sono molti – che non hanno mai creduto alla possibilità di questo nuovo piccolo miracolo economico italiano è stato totale e ha provocato all’interno della stessa categoria dei pessimisti a oltranza una sorta di frattura tra coloro che in qualche modo si sono ricreduti e quelli che invece si ostinano a vedere tutto nero. Tra i primi si possono catalogare i “convertiti anzi tempo”, cioè quelli che nei primi anni Duemila ritenevano e scrivevano assertivamente che il made in Italy era ormai senza alcun futuro nel nuovo scenario della globalizzazione ma che già da circa un decennio avevano cominciato gradatamente a cambiare idea e a scoprire e ammirare i nostri “hidden champions” e il “quarto capitalismo”, magnificandone i successi in editoriali e libri. Sono senza dubbio – questi ex pessimisti – i più meritevoli della loro categoria. Si differenziano dagli “opportunisti”, cioè quelli che hanno cominciato soltanto negli ultimissimi mesi a parlar bene di un’Italia che ha dimostrato di poter crescere e di saper eccellere, alcuni dei quali, i più sfrontati, ora arrivano perfino a dire e a scrivere che loro, sì, “l’avevano previsto”. Questi secondi pessimisti sono passati con assoluta disinvoltura e senza pudore sul carro del vincitore, vale a dire sul carro di questa nuova Italia sprint. 

 

Tra coloro che invece continuano a immaginare un’Italia sempre e inesorabilmente sull’orlo del baratro, la tassonomia è più ampia. Vi sono innanzitutto gli “inconsolabili”, cioè quelli che, nonostante la forte crescita odierna del nostro paese, continuano a rimpiangere l’Italia di fine anni ‘90-inizi anni 2000, quando il pil e la produzione industriale in quantità di allora erano più alti di oggi, è vero, anche se adesso l’Italia produce molto più valore, più prodotti sofisticati e si pone su una scala tecnologica notevolmente più alta di un tempo. 

Ci sarebbe qui da aprire un’ampia parentesi sulla opportunità di confrontare in termini di quantità il pil italiano odierno con quello di 20 anni fa, cioè di misurare in volume la crescita di un paese su un arco temporale lungo in cui sono avvenuti cambiamenti strutturali estremamente rilevanti come è accaduto nella nostra economia, molto di più che in altre nazioni avanzate. Ad esempio, il peso dei settori tradizionali (moda, mobili, ceramiche) nel valore aggiunto della manifattura italiana a prezzi correnti è sceso dal 28 per cento del 1995 al 19 per cento del 2020, quello dei settori a grandi economie di scala (metalli, chimica, auto) è sceso nello stesso periodo dal 23 per cento al 18 per cento, mentre il peso dei settori differenziati, in cui il made in Italy oggi eccelle (meccanica, mezzi di trasporto diversi dagli autoveicoli, carta, gomma-plastica, farmaceutica e alimentari) è salito dal 49 per cento al 63 per cento: un salto in avanti di ben 14 punti percentuali!

Sullo stesso arco di tempo, poi, anche i settori tradizionali si sono spostati sempre di più dalle produzioni in quantità degli anni 90 all’alta moda e al design di oggi. Si aggiunga altresì il fatto che sul totale del valore aggiunto manifatturiero odierno l’Italia è ormai nettamente davanti a Germania, Francia e Spagna per peso dei settori differenziati e si capirà perché abbiamo risentito meno degli altri delle interruzioni nelle forniture globali portate con sé dalla pandemia. Ma questo tema richiederebbe un libro intero per essere approfondito.

Tornando alla tassonomia dei “gufi” più ostinati, vi sono poi gli “irriducibili” (gli “ultimi giapponesi”), cioè quelli che nonostante la crescita record degli ultimi due anni continuano a titolare immancabilmente i loro interventi: “Un paese che non cresce” … 

Un’altra categoria è quella degli “indignati permanenti”, cioè quelli che, anche se l’economia italiana va obiettivamente bene, preferiscono comunque e sempre sottolineare soltanto gli aspetti che non funzionano allo scopo di proporre le loro ricette (il più delle volte assai velleitarie) per migliorare le cose. 
Tra i pessimisti più duri, troviamo poi i “falchi”, cioè coloro che dell’Italia vedono solo un’unica cosa, il debito pubblico, ritenendo che il nostro sia un paese di spendaccioni e di cattivi amministratori. Costoro ammirano incondizionatamente i paesi “frugali”. Poco importa che l’Italia sia stata in surplus statale primario negli ultimi 30 anni per ben 25 volte, cioè più di qualunque altro paese europeo, inclusi i “frugali”. E che i debiti pubblici odierni di Francia, Spagna e Stati Uniti siano in rapporto al pil più alti di quelli dell’Italia del 2011, allora paragonata da alcuni alla Grecia. 

 

Infine, vi sono coloro che potremmo soprannominare “l’erba del vicino è sempre più verde”: trattasi generalmente di studiosi, opinionisti o corrispondenti esteri che hanno lavorato molto o che lavorano tuttora all’estero, i quali anche di fronte a un pil dell’Italia che cresce a tassi record e a un popolo che è stato capace di uscire dalla pandemia con coraggio, impegno e grande dignità, vi diranno sempre che però qui in Italia noi siamo e saremo sempre distanti anni luce dai livelli di civiltà delle nazioni dove loro hanno vissuto e che ammirano senza riserve.


Nessun crollo a fine 2022

L’ultima previsione sbagliata di “gufi” e catastrofisti è che il quarto trimestre 2022 avrebbe visto un forte calo dell’economia italiana. Invece, pur in uno scenario internazionale avverso, in base ai dati preliminari diffusi dall’Istat il pil italiano ha subito soltanto un impercettibile arretramento nell’ultimo trimestre del 2022 rispetto al trimestre precedente: -0,1 per cento. Nonostante questo lieve calo, la crescita italiana dell’anno 2022 è rimasta impetuosa, per il forte progresso già messo a segno nei tre trimestri precedenti e anche perché lo stesso quarto trimestre è stato comunque il secondo più alto in termini reali dopo la pandemia, contribuendo sensibilmente alla media annua.

Tirando le somme, il nostro prodotto è aumentato del 6,7 per cento nel 2021 e del 3,9 per cento nel 2022. Per comprendere la rilevanza di questi dati basti pensare che, secondo il Fondo monetario internazionale, in entrambi gli anni l’economia italiana è cresciuta di più di quella mondiale nel suo complesso (+6,2 per cento e +3,4 per cento, rispettivamente), nonché della media dei paesi avanzati (+5,3 per cento e +2,7 per cento), mentre è progredita esattamente allo stesso tasso medio dei paesi emergenti (+6,7 per cento e +3,9 per cento, appunto).

Nel 2022 quasi tutte le maggiori economie del mondo sono cresciute di meno di quella italiana: gli Stati Uniti (+2 per cento), il Canada (+3 per cento), la Cina (+3 per cento), il Giappone (+1,4 per cento), la Corea del Sud (+2,3 per cento), la Germania (+1,9 per cento), la Francia (+2,6 per cento), il Brasile (+3,1 per cento), il Messico (+3,1 per cento), il Sud Africa (+2,6 per cento), la Nigeria (+3 per cento) e la Russia (-2,2 per cento). Mentre tra le maggiori nazioni europee hanno fatto meglio di noi solo la affannata Spagna (+5,2 per cento), che ha replicato tardivamente nel 2022 il nostro balzo del 2021, e il Regno Unito (+4,1 per cento), che tuttavia è ancora lontano dai livelli antecedenti la pandemia ed è ora per di più avviato verso un 2023 in recessione, scontando gli effetti negativi della Brexit (-0,6 per cento, contro il nostro +0,6 per cento previsto dal Fmi per l’anno in corso).

In un contesto internazionale che negli ultimi tre anni ha messo su un piatto della bilancia una sequenza impressionante di “cigni neri”, dalla pandemia alla guerra russo-ucraina, dal “caro-energia” all’impennata dell’inflazione, dalle interruzioni nelle catene globali delle forniture di componenti e semilavorati alla pesante ricaduta cinese nel coronavirus del 2022, l’economia italiana ha messo sull’altro piatto della bilancia dei contrappesi importanti, che le hanno permesso di reagire meglio di molte altre economie alla drammatica successione degli eventi. Ci riferiamo non solo alla elevata differenziazione produttiva del modello industriale italiano, meno vulnerabile alle crisi dei grandi settori degli altri paesi grazie alle sue filiere corte e ai distretti. E ci riferiamo non solo alla carta vincente del presidente Mario Draghi, giunto al governo proprio nel momento più decisivo e delicato della nostra ripresa. Ci riferiamo anche ai progressi nel rafforzamento della competitività e della produttività già messi a segno dall’Italia negli anni precedenti la pandemia.



Cosa insegnano il 2014-2017 e il 2021-2022

Il periodo di governo di Matteo Renzi, con riforme importanti come il Jobs Act e le decontribuzioni, l’introduzione degli 80 euro (un vero e proprio prototipo di riforma fiscale), lo smantellamento di numerosi balzelli a carico di famiglie e imprese e l’avvio del Piano Industria 4.0, è stato all’epoca molto sottovalutato e lo è tuttora. Ma fu in realtà un periodo pieno di cambiamenti decisivi per la politica economica italiana. 

Nel 2015-2018 furono raccolti i primi frutti significativi di quelle misure. Il potere d’acquisto delle famiglie cominciò a ricostituirsi, gli investimenti delle imprese italiane in nuovi macchinari e tecnologie decollarono a ritmi da secondo dopoguerra, la nostra produzione industriale cominciò a crescere agli stessi ritmi di quella tedesca, l’aumento della produttività della nostra manifattura superò i tassi di aumento degli altri paesi del G-7, mentre l’export italiano raggiunse nuovi record, in uno col surplus commerciale. Non ultimo, il rapporto debito/pil fu stabilizzato.

L’impatto positivo e duraturo di quelle riforme non è venuto meno né con i governi populisti Conte 1 e 2 né con la pandemia. Finita la quale, grazie anche alla efficace campagna vaccinale realizzata dal governo Draghi, l’economia italiana non solo ha ricominciato a crescere ma ha innestato la quarta. Draghi ha tranquillizzato i mercati e ha saputo gestire con rapidità ed efficacia sia il varo del Pnrr, con tutto il suo collegato di ulteriori impegni di riforme, sia la lotta all’inflazione. 

 

Riforme (fondamentali), crescita, occupazione

In definitiva, la lezione degli ultimi nove anni è molto chiara. Riforme e crescita vanno di pari passo. E con le riforme e la crescita viene poi anche l’occupazione, che con gli investimenti è la base per ogni ulteriore sviluppo. 

Secondo le rilevazioni delle forze di lavoro dell’Istat, durante i governi Renzi e Gentiloni gli occupati totali in Italia crebbero di 1 milione e 270 mila unità e quelli dipendenti a tempo indeterminato di 560 mila unità. Durante il governo Draghi, a tutto luglio 2022, gli occupati totali sono cresciuti di un milione e 24 mila unità, di cui 577 mila dipendenti a tempo indeterminato. Con Renzi e Gentiloni il tasso di occupazione salì dal 54,8 per cento al 58,7 per cento, mentre con Draghi ha superato per la prima volta nella storia il 60 per cento.

Altro fatto importante. Negli ultimi 20-25 anni il numero di occupati di nazionalità italiana ha avuto una tendenza di lungo periodo discendente, a causa sia di ragioni demografiche sia delle profonde crisi economiche del 2009 e del 2011-13. Sono invece cresciuti gli occupati di nazionalità non italiana, soprattutto nel 2004-2008, assolutamente decisivi per contrastare il nostro declino demografico, per compensare la domanda di lavoro e le tipologie professionali non coperte dagli italiani, ad esempio le badanti o i fonditori. Tuttavia, è evidente che solo una minima parte dei redditi degli occupati di nazionalità straniera si è trasformata in consumi interni, dati i consistenti flussi di rimesse all’estero verso i paesi di origine. Quindi anche il calo dell’occupazione italiana e il contemporaneo aumento di quella straniera hanno certamente influito molto sulla depressa dinamica della domanda interna in Italia nei primi tre lustri del nuovo secolo. 

Tuttavia, prima durante i governi Renzi e Gentiloni e poi durante il governo Draghi gli occupati di cittadinanza italiana, pur non ritornando ai livelli precedenti la crisi mondiale del 2008, sono ripresi a crescere in modo sensibile e anche questo ha contribuito a rilanciare i consumi domestici e quindi la dinamica del pil. In particolare, durante i citati governi, più orientati alle riforme e alle politiche per la crescita rispetto ai governi di impostazione populista, sono aumentati maggiormente gli occupati italiani a tempo pieno rispetto a quelli a tempo parziale. Infatti, gli occupati italiani a tempo pieno sono cresciuti di 619 mila unità dal secondo trimestre 2014 al secondo trimestre 2018 e di 461 mila unità dal secondo trimestre 2021 al secondo trimestre 2022. 

 

Le prospettive e le sfide per il 2023

Anche i previsori che hanno faticato a lungo a capire che l’Italia di oggi non è più quella dei primi anni Duemila si stanno adeguando. Ha cominciato il Fmi nelle scorse settimane a rialzare a +0,6 per cento la crescita del pil italiano attesa per il 2023. Negli ultimi giorni anche la Commissione Europea ha rivisto in meglio la sua stima sulla nostra economia per l’anno in corso a +0,8 per cento (rispetto al precedente +0,3 per cento). E’ un dato importante perché significa che l’Italia potrebbe crescere per il secondo anno consecutivo di più della Francia e per il terzo anno consecutivo di più della Germania. Nel frattempo, l’inflazione in Italia scenderà al 2,3 per cento nel quarto trimestre 2023 ridando fiato ai consumi domestici.

In definitiva: pil, investimenti, occupazione, produttività, competitività, export. Tutto sta andando piuttosto bene in Italia in questa particolare fase storica. Sta ora al governo Meloni far proseguire il nuovo piccolo miracolo economico tricolore. L’attuazione puntuale ed efficiente del Pnrr e il rilancio di Industria 4.0 sono le due sfide più importanti da vincere per far sì che l’Italia dei record del 2021-2022 non si fermi ma continui a crescere e a sorprendere.     
 

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