Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti (Ansa)

altro che machete

Al Mef non servono autodafé, ma una euro-visione per il futuro

Oscar Giannino

Ora che il governo Meloni è chiamato a decidere quale rapporto vuol davvero tenere verso la Ue, non può farlo con estemporanee interviste imbevute di orgoglio nazionale. Quali riforme comunitarie e italiane ha in mente l'esecutivo e quali le migliori competenze per presentarsi nei consessi europei?

La prudenza sui saldi finanziari del 2023 indicati dal governo Meloni è stata un buon biglietto da visita per mercati ed Europa. Ma in questi primi giorni del 2023 si manifestano segnali contrastanti. Il ministro della Difesa Crosetto ha lanciato un attacco a testa bassa contro la Bce, dimenticando che gli acquisti straordinari di titoli pubblici nacquero come strumento temporaneo per fronteggiare lo spettro della deflazione, mentre oggi Francoforte non può che fare l’opposto, di fronte a un’inflazione così elevata e colpevolmente a lungo sottostimata. Il capitolo dello spoil system governativo si è aperto con la richiesta di palazzo Chigi di sostituire il direttore generale del Tesoro, Alessandro Rivera, che il ministro Giorgetti vorrebbe difendere perché prezioso nella preparazione degli Ecofin.

L’accusa è che con Rivera il Tesoro avrebbe pessimamente gestito le crisi bancarie di anni fa. Insomma, nomine fatte con lo specchietto retrovisore. Chi qui scrive è stato molto critico verso le scelte di Rivera negli ultimi mesi del governo Draghi, su dossier come Isab, Ita, Ilva e Tim. Ma ora che il governo Meloni è chiamato a decidere quale rapporto vuol davvero tenere verso la Ue, non può affrontarlo con estemporanee interviste imbevute di orgoglio nazionale. Al Mef non servono autodafé guardando al passato, il punto è il futuro: quale visione di riforme europee e italiane abbia il governo, e quali siano le migliori competenze accumulate negli anni perché l’Italia possa presentarle al meglio nei consessi europei.

 

Nessuno finora ha potuto capire che cosa il governo voglia proporre nel 2023 al tavolo europeo delle nuove regole su deficit e debito,  né su quello del nuovo regime sugli aiuti di Stato dopo la proroga  delle deroghe ai divieti avvenuta – entro certi limiti – con l’invasione russa dell’Ucraina.  Con ogni probabilità, visto il tira e molla interno alla maggioranza in occasione della legge di bilancio, FdI, Lega e FI non ne hanno ancora mai parlato tra loro. Sicuramente il ministro Fitto conosce i dossier. Ma con prese di posizione esagitate e volte al proprio elettorato il rischio di finire di nuovo nell’angolino dei paesi sospetti è una stupidaggine da evitare. La manifattura italiana sta crescendo più di quelle tedesca e francese: ridare l’impressione di tornare ad anteporre il diritto a nuovo debito pubblico a rotta di collo è l’esatto opposto di quell’interesse nazionale di cui la destra si erge a tutrice.

 

Oltretutto lo spazio c’è, per una posizione italiana di ampia convergenza con molti membri della Ue e dell’euroarea. Il nuovo quadro di strumenti e obiettivi presentato dalla Commissione Ue a novembre in vista del nuovo Patto di stabilità su deficit e debito non è affatto un decalogo dettato sul monte Sinai. La rinuncia del criterio del deficit strutturale sostituita da valutazioni di Bruxelles e trattative dirette con ogni singolo governo su un  quadro pluriennale di impegni su deficit, debito e riforme, è insieme troppo discrezionale per i poteri riservati alla Commissione e assai poco credibile per quanto riguarda le misure di enforcement (le sanzioni non sono mai scattate sotto il precedente patto di stabilità). La posizione assunta prima di Natale da Francia e Germania sulla concessione di deroghe nazionali al divieto di aiuti di Stato, per fronteggiare i massicci stanziamenti pluriennali nell’ordine dei trilioni di dollari che Usa e Cina riservano alle proprie filiere industriali sul green, intelligenza artificiale e chip, è sbagliata in principio. Nazionalmente Francia e Germania non potrebbero mai sommare risorse paragonabili alle sfide industriali lanciate da Usa e Cina e anzi spezzerebbero il mercato unico, visto che la seconda manifattura europea cioè quella italiana non potrebbe mai contare su un governo con spazio fiscale per incentivi paragonabili a tedeschi e francesi. Su entrambi i tavoli l’alternativa è puntare sulla crescita di strumenti finanziari comuni europei, che estendano l’esperienza di Ngeu, Sure e Mes, perché solo così si emette debito europeo a tripla A di cui i mercati si fidano di più e proprio per questo si raggiunge più facilmente l’obiettivo di risorse adeguiate alle sfide tecnologiche che abbiamo davanti. Senza aggravare i gap intra-Ue ma al contrario realizzando passi avanti verso un’Europa comune e solidale dell’energia, delle nanotecnologie, della difesa e dei big data.

 

La maggior resilienza industriale dell’Italia consegna al governo la possibilità di lavorare sui tavoli europei per una vasta convergenza di interessi nazionali che hanno solo da guadagnare da più Europa, rispetto al vecchio asse franco-tedesco che non comprende più né le priorità su sicurezza e difesa dei membri orientali dell’Unione, né una parte rilevante delle specializzazioni che rendono forte l’Unione nei mercati extra Ue. E’ troppo, chiedere al governo di chiarirsi le idee su questo e dichiararlo al Parlamento, prima di impugnare il machete secondo liste di proscrizione come ai tempio di Mario e Silla?