Le sanzioni occidentali sul petrolio mordono e la Russia risponde in maniera confusa

Luciano Capone

L’embargo dell'Unione europea e il price cap del G7 hanno abbattuto il prezzo del greggio degli Urali e ridotto i volumi esportati russi. Il rublo si svaluta e il deficit si allarga. Putin e i suoi ministri mettono in campo minacce contraddittorie 

Le sanzioni occidentali, che dal 5 dicembre includono l’embargo dell’Unione europea e il price cap del G7 al petrolio russo, mordono, e la strategia di Mosca appare sempre più confusa e contraddittoria. La svalutazione del rublo di circa il 20% rispetto al dollaro nelle ultime settimane, benché abbia dei risvolti positivi per il bilancio, è il prodotto di un indebolimento dei fondamentali economici. Ma le autorità hanno dato due spiegazioni diverse.

 

Secondo il vicepresidente della Banca centrale russa Alexei Zabotkin il deprezzamento è dovuto al “deterioramento delle condizioni esterne” come “il calo dei prezzi del petrolio”; mentre secondo il ministro delle Finanze Anton Siluanov la ragione della caduta del rublo è opposta: non un calo delle esportazioni, ma “la crescita delle importazioni”. Naturalmente la spiegazione della Banca centrale russa è la più ragionevole. In un contesto generale di discesa dei prezzi del petrolio – il Brent ora è a circa 84 dollari, distante dai 90-100 di novembre e lontanissimo dai picchi a 120 dollari di giugno – le quotazioni del greggio russo sono crollate: dal 15 novembre al 14 dicembre il prezzo medio dell’Urals è stato di 57,5 dollari, mentre il mese precedente era stato di 71,1 dollari. L’embargo europeo e il price cap del G7 a 60 dollari hanno ulteriormente ampliato lo sconto sul greggio russo, spingendo attualmente il prezzo dell’Urals a 45-50 dollari. A vantaggio dei pochi acquirenti rimasti come Cina e India, che ormai assorbono il 90 per cento dell’export russo.

 

Ma anche su questo fronte le risposte di Mosca sono del tutto contraddittorie. Il presidente russo Vladimir Putin ieri ha firmato un decreto che blocca da febbraio le esportazioni di petrolio verso i paesi che applicano il price cap. L’efficacia della misura è poco chiara, dato che si tratta di paesi che hanno già imposto un embargo petrolifero alla Russia. L’altra ritorsione di Putin, confermata recentemente dal vice primo ministro Alexander Novak, è la minaccia di ridurre la produzione di petrolio del 5-7 per cento a inizio 2023 per far risalire il prezzo. Ma si tratta, al momento, di una minaccia spuntata. Perché più che una ritorsione per le sanzioni occidentali, sembra una semplice conseguenza dell’embargo europeo e del price cap.

 

Secondo i dati di S&P Global, dal 1° al 21 dicembre dai porti russi sono partiti in media 2,66 milioni di barili al giorno, in calo di 426 mila barili e cioè del 14 per cento rispetto a novembre. Per altri osservatori il calo è più intenso, se si parte da dopo il 5 dicembre. Secondo le stime diffuse dal quotidiano russo Kommersant del Center for Strategic Research, un think tank legato al Cremlino, per effetto delle sanzioni occidentali nel 2023 la produzione potrebbe diminuire del 10-25 per cento rispetto al 2022. Pertanto, per la Russia ridurre la produzione rischia di essere una decisione subìta più che voluta. Anche perché rischia di aprire una voragine nel bilancio federale, dato che il budget del 2023 prevede un prezzo del petrolio a 70 dollari al barile e la realtà prospetta prezzi più bassi e volumi di export in calo.

 

Per giunta, a febbraio scatterà anche l’embargo europeo sui prodotti petroliferi russi in aggiunta al greggio. In un’intervista alla Tass, sempre il vice primo ministro Novak sul tema ha detto che “l’Europa era il nostro mercato principale per i prodotti petroliferi”, ma che se dovesse chiudersi alla Russia il governo ha previsto diversi scenari per riequilibrare il rapporto tra esportazione, produzione e raffinazione di petrolio: “Nel caso in cui sorgano problemi con la vendita di prodotti petroliferi – ha detto Novak alla Tass – in una certa misura può essere sostituita da volumi aggiuntivi di esportazioni di petrolio”. Non più tagliare i volumi, quindi, ma aumentarli. In pratica Mosca già annuncia che sarà costretta a fare il contrario di ciò che minaccia.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali