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Indagine sui fronti aperti

C'è voglia di nazionalizzare, ma lo spirito di Beneduce, creatore dell'Iri, non si trova

Stefano Cingolani

“Misure urgenti a tutela dell’interesse nazionale nei settori produttivi strategici”, sono le parole magiche del governo. Ma fino a che punto i bisogni del paese coincidono con quelli dei contribuenti?

La prima reazione è quasi pavloviana: ora che l’Unione europea vuole allentare il corsetto agli aiuti di stato, chi li ferma più? Sostegni, sussidi, aiuti a gogo e nazionalizzazioni, sì, cade anche questo tabù. Il manager di lungo corso che ha guidato grandi aziende pubbliche e private sospira: “Ci vorrebbe Beneduce”. È un refrain che si ripete sempre quando il governo come un fidato barelliere interviene a raccogliere l’impresa morente. Questa volta, però, non siamo più di fronte a un luogo comune. Un po’ per necessità, un po’ per il nuovo spirito del tempo, un po’ per un recupero ideologico, in Italia risale l’onda statalista. Sono in ballo l’Ilva, la più grande acciaieria europea occidentale, l’Isab, la seconda raffineria italiana, Ita Airways, la compagnia aerea tricolore, il Montepaschi, terza banca nazionale e, se non basta, Telecom Italia: lo stato torna telefonico, siderurgico, banchiere, aviatore, petroliere, tutti mestieri che non sa fare, non più da quando sono usciti di scena i figli e nipoti di Alberto Beneduce. Se ne sta rendendo conto anche Giorgia Meloni: prima di fare nuovi debiti bisogna avere in testa un progetto chiaro. Il nostro interlocutore, per la posizione delicata che ricopre in una giuntura chiave di questo flusso e riflusso, chiede di non essere nominato, però tra una portata e l’altra ha voglia di sfogarsi, trascurando pane e companatico. Non ha nostalgie per la vecchia Iri, è morta e sepolta, ma è quanto mai opportuno ricordare come nacque. 

 

L’Istituto per la ricostruzione industriale arriva al mondo il 23 gennaio del 1933 (siamo ormai a 90 anni fa), con il regio decreto numero 5 partorito durante una notte insonne. “Nessun nastro di letizia fu appeso al portone di via Versilia numero 2” (all’angolo con via Veneto a Roma, ndr), ricordò Donato Menichella che fu tra i fondatori e nel Dopoguerra divenne il governatore della Banca d’Italia grazie al quale la lira vinse l’oscar delle monete. Semmai ci voleva una fascia a lutto perché le grandi banche (Commerciale, Credito italiano, Banco di Roma) che avevano in pancia le azioni dei maggiori gruppi industriali (dall’Ansaldo all’Alfa Romeo, dall’Ilva alle società telefoniche e alle compagnie di navigazione) erano al collasso. Lo stato non intervenne acquistando direttamente le azioni, ma attraverso un filtro giuridico e tecnico, come altri istituti di credito di diritto pubblico, l’Iri nacque come temporaneo e durò oltre sessant’anni. Attenzione, è vero che la crisi scoppiata dopo il crac di Wall Street nel 1929 aveva dato il colpo di grazia, ma non è vero come spesso si dice che lo stato non fosse intervenuto. Anzi, “lungo il quindicennio 1918-1932 il sostegno pubblico all’industria e alla finanza si fece rilevante. Ma non bastò”, scrive Pierluigi Ciocca nella Storia dell’Iri pubblicata da Laterza.

 

“Non furono all’altezza – aggiunge lo storico dell’economia già nel direttorio della Banca d’Italia – gli azionisti e gli amministratori dei grandi gruppi privati in difficoltà”. Alberto Beneduce ne trae così le estreme conseguenze, ma non vuole affatto la completa nazionalizzazione. A lui, che non era iscritto al partito ed era per lo più avversato dai fascisti, Benito Mussolini aveva delegato gran parte delle scelte più importanti, ne aveva fatto il suo più fidato consigliere. Matematico del calcolo delle probabilità, socialista riformista seguace di Leonida Bissolati, importante esponente della massoneria, collaboratore dei governi Giolitti e Nitti, ministro del Lavoro nel gabinetto Bonomi, aperto oppositore del fascismo e di Mussolini sino al fallimento dell’Aventino, amico di Bonaldo Stringher (direttore generale della Banca d’Italia) e di Giuseppe Volpi (l’industriale elettrico ministro delle Finanze dal 1925 al ’28), in buoni rapporti con Guido Jung (il gran capo della Comit) era ai vertici di istituti speciali di credito pubblici, come pure della finanziaria privata Bastogi, il salotto buono del vecchio capitalismo italiano.

 

Scelte politiche di fondo (l’invasione dell’Etiopia, l’autarchia, la militarizzazione del regime proclamatosi impero) resero di lì a poco una pia speranza il ritorno alle normali regole di mercato. Poi la guerra e la ricostruzione fecero dell’Iri il paradigma dell’economia mista all’italiana. Beneduce aveva chiaro fin dall’inizio che il risanamento delle aziende implicava la capacità di elaborare delle strategie industriali. Così si circondò di tecnici, ingegneri, economisti: chiamò accanto a sé il rude Menichella, Pasquale Saraceno, Oscar Sinigaglia che sarà protagonista del rilancio della siderurgia italiana nel Dopoguerra. L’Iri e l’Eni hanno formato e messo alla prova due generazioni di manager e imprenditori, in Italia sono state l’equivalente delle grandi scuole francesi, senza trascurare l’Enel, punto di riferimento per l’industria nucleare (l’Italia era stato il primo paese europeo a utilizzare l’energia atomica per scopi pacifici).

 

La formula magica per tamponare le emergenze recitando il mantra sovranista è semplice e ambigua al tempo stesso: “Misure urgenti a tutela dell’interesse nazionale nei settori produttivi strategici”. L’espressione viene usata nel decreto per la raffineria Isab di Priolo e si estende come un elastico, tutto ormai sembra strategico. Ma fino a che punto l’interesse nazionale coincide con l’interesse dei contribuenti? È strategica l’Ilva al fine di tutelare l’interesse nazionale? Il manager non usa giri di parole: lo è, tanto più se dobbiamo fabbricare cannoni. Lo è perché dell’acciaio abbiamo gran bisogno per le opere pubbliche, non possiamo realizzare il Pnrr importando materie prime e semilavorati. Stiamo parlando di acciaio primario che si fa fondendo nell’altoforno carbone e ferro, non quello da rottami prodotto con i forni elettrici.

 

Abbiamo assistito per un decennio, da quando la magistratura ha messo sotto sequestro gli impianti, a una querelle surreale tra altoforno e forno elettrico, due sistemi diversi per due prodotti diversi. Il dilemma si pose anche nel 1946: bisognava puntare “sull’artigianato organizzato”, come sosteneva il commissario liquidatore dell’Alfa Romeo, o sulla industria di massa? Vinse la seconda opzione, sostenuta da Sinigaglia e Vittorio Valletta, una scelta mai digerita fino in fondo tanto che oggi al posto dell’acciaio spuntano a Taranto le cozze pelose. L’Ilva è una impresa redditizia? I Riva hanno incassato bei profitti, il problema semmai è che non hanno investito abbastanza per il risanamento ambientale.

 

Oggi produce tre milioni di tonnellate la metà degli impegni presi, ben lontano dalla sua capacità teorica di otto milioni di tonnellate. Non solo: la bolletta energetica ha messo a terra i conti. L’acciaieria consuma un miliardo di metri cubi di gas l’anno, nel 2021 ha speso 180 milioni di euro, nel 2022 ne spenderà un miliardo e mezzo a fronte di ricavi pari a 3,5 miliardi. Insomma quasi la metà degli incassi se ne va per l’energia. Il governo Draghi ha concesso un credito d’imposta che ha dato sollievo, ma scade a fine mese. Il governo Meloni ha detto che non metterà più un euro (in realtà di tratta di due miliardi che arrivano dal Pnrr e dal decreto aiuti bis) se non prenderà il controllo. Il Tesoro attraverso Invitalia possiede il 32 per cento, Arcelor Mittal il resto, ma la governance è divisa a metà: il presidente Franco Bernabè rappresenta lo stato, l’amministratore delegato Lucia Morselli i privati. Per tagliare il nodo gordiano l’idea è revocare il contratto d’affitto al gruppo franco-indiano, scelta foriera di contenziosi giudiziari a non finire. 

 

Seconda domanda: è strategica l’Isab, la raffineria di Priolo? Per il governo Meloni lo è e si è parlato di coinvolgere l’Eni che, invece, la pensa diversamente sulla trasformazione di petrolio e derivati: sta riconvertendo i suoi impianti e punta sui biocarburanti. L’esigenza impellente riguarda le forniture di greggio che dipendono, però, da un problema a monte: la proprietà. La seconda raffineria italiana è controllata dalla russa Lukoil attraverso una società lussemburghese. Il greggio che alimenta l’impianto è sotto embargo e le banche non danno più finanziamenti nemmeno sotto la garanzia dello stato. Il governo ha varato il decreto che concede all’Isab la facoltà di accettare temporaneamente la gestione statale, intanto si cerca un compratore. Eugene Maniakhine, direttore generale dell’impianto (e ceo della società), dice al Sole 24 Ore che verrà fuori entro l’anno. Ci sono industriali italiani interessati? Non Garrone che l’ha venduta, forse Moratti che in Sardegna possiede la raffineria numero uno. Tra i cercatori c’è anche Massimo D’Alema, sponsor di una cordata qatariota. Sì, il Qatar, sempre lui, quello dei Mondiali, quello del gas liquefatto che rimpiazza il metano siberiano, del bosco verticale e dei grattacieli milanesi, della bella Eva Kaili, di Antonio Panzeri e chissà quanti altri. Dalla brace russa alla padella dell’emiro.

 

In mezzo al guado è rimasta anche Ita Airways. Ci vuole una nuova compagnia di bandiera? “Una compagnia italiana, non di bandiera”, ha risposto Adolfo Urso al Foglio. Sono stati spesi oltre due miliardi. Il Tesoro sotto il ministro Daniele Franco ha pasticciato: prima Lufthansa e Msc, poi contrordine, il fondo Certares con (forse) Air France e Delta. Adesso torna Lufthansa mentre Gianluigi Aponte, offeso, ha sbattuto la porta e ha ritirato la sua Msc. I tedeschi vogliono la maggioranza, il governo punta i piedi, agita un potere di veto, parla di chiamare in causa le Fs che hanno tanto da fare per conto proprio con l’alta velocità nel sud e tutti fondi del Pnrr. La politica vuol comandare e ciò vuol dire spendere. Non si tratta solo di acquisire un pacchetto azionario, ma bisogna farsi carico dei debiti e degli investimenti, operazione ad alto rischio. Da dove vengono i soldi? Prendiamo il Monte dei Paschi di Siena, nazionalizzato “temporaneamente” nel 2017 e ancora in cerca di un compratore. Nell’ultimo aumento di capitale (il settimo in 14 anni) il Tesoro ha messo un miliardo e 600 milioni di euro. Cinque anni fa lo stato ha sborsato 5,4 miliardi di euro per il salvataggio e ha perso 4,4 miliardi di euro per la caduta del titolo in borsa. Se mettiamo insieme una serie di altri esborsi, volendo fare un conto a spanne dovremmo dire che Mps è costato 700 euro per ogni italiano. Ne è valsa la pena?

 

Abbiamo lasciato in fondo alla lista la ri-nazionalizzazione telefonica, non la meno, ma la più importante. Di rete unica si parla da trent’anni, da quando l’allora Stet propose di cablare a banda larga tutta l’Italia. Socrate, acronimo per Sviluppo Ottico Coassiale Rete Accesso Telecom, era un progetto pilota, unico in Europa. Allora, secondo il nostro manager, Telecom Italia era la più avanzata azienda del Vecchio continente nel campo delle telecomunicazioni, insieme a Deutsche Telekom e meglio di British Telecom. Poi è successo di tutto, tra opa, ribaltoni, scalate nazionali e internazionali. E adesso? Il problema è certo colmare il divario digitale, ma si può fare in tanti modi, con diverse soluzioni tecnologiche. In molti dopo la pionieristica Fastweb, hanno scavato buche e piazzato fibra ottica, anche parte delle aree marginali sono state coperte combinando rame e fibra. I tecnici sono divisi, i politici vogliono che torni la proprietà statale, la destra lo ha promesso e adesso scopre che le cose sono ben più complicate; così, invece della rete unica di stato, saltano fuori molte reti: quella pubblica nelle aree marginali (bianche) e grigie, ma non dove ci sono già i privati, mentre nelle zone nere (quelle coperte) potranno essercene almeno tre.

 

E tutto può cambiare di nuovo quando questo articolo sarà già in stampa. Intanto diventa urgente rimettere in sesto Tim oberata di debiti (25 miliardi), con un valore di borsa irrisorio (poco più di 4 miliardi di euro), 42 mila dipendenti la metà dei quali dovrebbero essere collocati altrove. Il governo Meloni ha azzerato l’accordo di massima stipulato tra la Tim e Open fiber per unire le loro reti, insieme ai fondi Macquarie e Kkr i quali, alla fine, avrebbero avuto le quote di maggioranza, un assetto avversato dai sovranisti. Si ricomincia, come è accaduto a ogni cambio di governo: con Romano Prodi c’era il “nocciolino duro” e l’illusione di creare una public company all’americana, con Massimo D’Alema è arrivata la scalata dei capitani coraggiosi, poi la Pirelli di Marco Tronchetti Provera (con Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi), torna Prodi ed entrano gli spagnoli di Telefonica, poi le banche, i francesi di Vivendi, il fondo americano Elliot, Paolo Scaroni regista non proprio occulto, la Cassa depositi e prestiti. L’esecutivo guidato da Draghi non ha fatto passi avanti bloccato dal contrasto tra Vittorio Colao ministro della Transizione digitale, contrario alla rete unica di stato, e Giancarlo Giorgetti ministro dello Sviluppo economico che ora come titolare del Tesoro è anche azionista di Cdp.

 

Ogni volta che lo stato torna a svolgere un ruolo di supplenza, si ripresentano dilemmi antichi: ci sono capitalisti italiani in grado di assumersi i rischi di una grande impresa in mercati iper competitivi? Nel 1992, crollata la lira, il governo guidato da Giuliano Amato decise di avviare quelle privatizzazioni che già Guido Carli, come ministro del Tesoro, aveva proposto nel 1989 scontrandosi con un muro di gomma. Giuseppe Guarino, insigne giurista, ministro delle Partecipazioni statali e sostenitore dello stato imprenditore, riunì riservatamente il fior fiore del capitalismo italiano: Agnelli, Romiti, Ferruzzi, De Benedetti, Sama, Tronchetti, e propose di avviare un processo di integrazione dei grandi gruppi pubblici con quelli privati. Fu un fallimento. E non il primo. Quello smacco convinse Amato e i suoi successori a vendere sul mercato tutte o in parte le aziende di stato. Fu fatto senza strategia industriale? Forse, ma fu fatto con chi ci stava: Lucchini, Benetton, Caltagirone, Barilla, De Agostini, Riva, Siemens, Krupp. Non sono stati tutti fallimenti, tuttavia prevalse l’emergenza, allora come oggi. Per creare una nuova Iri, anche volendo, non ci sono le risorse: nel 1933 venne impiegata una quota di reddito nazionale che, ricalcolata al valore attuale dell’euro, corrisponde a 150 miliardi. Ma soprattutto nessun Beneduce appare all’orizzonte.

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