Il sentiero strettissimo di Meloni e il dilemma delle pensioni

Luciano Capone

La spesa pensionistica continua ad aumentare (+23 miliardi nel 2023), ma ci sono ancora le promesse del centrodestra da finanziare. Ma tra il bisogno di rinnovare gli aiuti contro il caro energia e la necessità di tenere il debito sotto controllo, la scelta peggiore sarebbe spendere altri soldi per le pensioni

“Non possiamo permetterci immaginifiche flat tax e prepensionamenti. Non vogliamo negare ai partiti di perseguire le promesse elettorali ma oggi energia e finanza pubblica sono due fronti emergenza che non possono ammettere follie per evitare l’incontrollata crescita di debito e deficit”. Il presidente della Confindustria, Carlo Bonomi, intervenendo all’assemblea dell’Unione degli industriali di Varese, ammonisce il nuovo governo a trazione Meloni. La richiesta al governo di centrodestra è proprio quell’excusatio non petita: mettere da parte il programma elettorale e guardare in faccia la realtà, anche per evitare di andare a sbatterci contro il muso come ha fatto il governo Truss in Gran Bretagna. 

 

Quelli citati da Bonomi sono i due pilastri dell’offerta con cui Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi hanno raccolto i voti il 25 settembre. Ma che la Flat tax (anche se il centrodestra non ha mai definito il livello dell’aliquota) e la controriforma pensioni (revisione della legge Fornero e aumento delle minime) fossero due obiettivi fuori dalla realtà – rispetto a un contesto di frenata della crescita globale, inflazione, incremento dei tassi d’interesse e quindi del costo del debito, aumento del prezzo dell’energia e rischio razionamenti di gas – era noto già in campagna elettorale. Ma ora a certificarlo sono in numeri della Nadef, approvata nei giorni scorsi dal governo Draghi: è questa la base di partenza per l’impostazione della legge di Bilancio del prossimo governo. E sebbene i conti siano migliori del previsto, con un debito pubblico più basso di 2 punti rispetto alle stime del Def e un deficit più basso di mezzo punto sia quest’anno sia il prossimo, lo spazio di manovra è davvero ridotto. I limiti del sentiero strettissimo di Giorgia Meloni sono quelli indicati da Bonomi: il bisogno di aiuti per abbassare il costo dell’energia da un lato, la necessità di tenere i conti pubblici in ordine dall’altro. E i numeri della Nadef indicano proprio che lo spazio tra Scilla e Cariddi è molto meno ampio di quanto le promesse in deficit del centrodestra richiederebbero.


La Nadef prevede per il 2023 una crescita allo 0,6%, in forte rallentamento rispetto al 2,4%, ma si tratta di una stima che per lo stesso Mef alcuni rischi possono spingere al ribasso e che per molti osservatori internazionali è eccessivamente ottimistica. In questo quadro il deficit per l’anno prossimo è previsto al 3,4%, mezzo punto sotto il 3,9% previsto dal Def. Il merito è essenzialmente dell’inflazione, che trascina all’insù il pil nominale e le entrate fiscali, superando l’effetto opposto del rallentamento della crescita e dell’aumento della spesa per interessi. Il dato, però, è a legislazione vigente e vuol dire che non prevede per il 2023 i tanti aiuti per l’energia che scadono entro fine anno: non a caso, la spesa primaria (quella al netto degli interessi) è prevista in discesa dal 50,3 al 49%. È questa contrazione della spesa corrente che migliora il deficit di 0,5 punti, aprendo un margine per il nuovo governo di circa 10 miliardi. Ma per cosa dovrebbe spenderli il governo?


I sindacati hanno già avanzato le loro richieste sulle pensioni, che peraltro sono uguali a quelle della Lega di Salvini (Quota 41), minacciando la mobilitazione. Ma la spesa pensionistica continua, meccanicamente, a lievitare. Secondo la Nadef, per il solo effetto dell’aggiustamento all’inflazione, la spesa pensionistica passerà da 297 a 320 miliardi (+7,9%), passando dal 15,7 al 16,2% del pil (la più alta al mondo, e in ulteriore aumento nel 2024). Con un’esplosione meccanica della spesa per pensioni, la spesa corrente nei conti della Nadef viene tenuta sotto controllo perché scadono tutte le misure contro il caro energia adottate dal governo Draghi per il 2022: 14,7 miliardi per il contenimento bollette; 2,8 miliardi di bonus sociali per elettricità e gas; 18,3 miliardi di credito d’imposta per le imprese sull’acquisto di energia e gas; 7,7 miliardi per il taglio delle accise sui carburanti; 9,8 miliardi di indennità una tantum (bonus 200 e 150 euro); 3,8 miliardi di altre misure. In totale si tratta di 57 miliardi di euro, che il governo Draghi ha speso facendo ridurre deficit e debito.

 

Il nuovo governo, invece, avrà molti meno soldi da spendere ma facendo aumentare il deficit: se vorrà alzare il disavanzo dal 3,5% al livello fissato da Draghi nel Def, avrà a disposizione solo 10 miliardi. Poco più di un sesto della spesa contro il caro energia per il 2022. Si possono ricavare altre risorse limando la spesa o attraverso altre entrare, ma aumentare a dismisura il deficit non pare essere l’intenzione di Giorgia Meloni e sarebbe una pessima idea, viste le tensioni già esistenti sottotraccia sul debito pubblico. È vero che a dicembre scade Quota 102 e scatta il ritorno alla legge Fornero, ma se il centrodestra vuole seriamente affrontare il caro energia senza far saltare i conti pubblici, evitando cioè di farsi divorare dallo spread, l’ultima cosa da fare è aumentare la spesa pensionistica. Anche perché cresce già troppo per conto suo.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali