Meloni e il sentiero strettissimo della legge di Bilancio

Luciano Capone

Per non uscire dal percorso di Draghi, la leader di Fratelli d'Italia non ha molto spazio di bilancio: solo 10 miliardi

Il “sentiero stretto” era la formula usata da Pier Carlo Padoan quando era al ministero dell’Economia per descrivere il percorso angusto della finanza pubblica italiana per coniugare sostegno alla crescita e sostenibilità del debito pubblico. E quanto è stretto il sentiero che si trova davanti Giorgia Meloni? I numeri della Nadef, appena approvati dal Consiglio dei ministri, mostrano un quadro migliore delle aspettative, seppure in un contesto economico sempre più complicato. In sintesi si può dire che Mario Draghi e Daniele Franco lasciano al prossimo governo un margine di circa 10 miliardi, per quest’anno e altri 10 per l’anno prossimo. 

Le proiezioni approvate nella Nadef prevedono per il 2022 una crescita al 3,3%, in rialzo di 0,2 punti rispetto allo scenario programmatico del Def; un debito pubblico al 145,4%, al di soto del 147% del Def; un deficit al 5,1%, in miglioramento dispetto al 5,6% del Def. È proprio questo mezzo punto di pil, di poco inferiore a 10 miliardi, che potrà consentire al governo di varare un nuovo decreto anti-crisi per coprire gli ultimi mesi di aiuti: ad esempio la proroga del taglio delle accise sui carburanti, che scade a metà ottobre (costo: poco meno di 1 miliardo al mese), o il credito d’imposta per le imprese sull’acquisto di energia che scade a novembre (costo: 4,7 miliardi per il mese di dicembre). Questo maggiore spazio per fine 2022, dovuto al buon andamento delle entrate trainate anche dall’inflazione, era in una certa misura annunciato dal ministro Franco. Ma il trend, per certi versi inaspettato, riguarda anche il 2023 nonostante la frenata della crescita.

La Nadef infatti prevede per il 2023 una crescita allo 0,6%, in forte rallentamento rispetto al 2,4% del Def di aprile, a causa del rallentamento dell’economia globale e dell’impennata dei prezzi, a cui si aggiunge il rialzo dei tassi di interesse operato dalle banche centrali proprio in risposta all’aumento dell’inflazione. Nonostante il rallentamento della crescita, però, nel 2023 il debito pubblico è previsto ancora in calo (dal 145,4% al 143,2%) e, soprattutto, è previsto un miglioramento del deficit. Se il Def stimava un disavanzo del 3,9%, il dato tendenziale della Nadef mostra una riduzione più rapida al 3,4%. Il driver principale è l’inflazione: l’incremento di 1,5 punti del deflatore del pil fa sì che la crescita del pil nominale più che compensi il rallentamento della crescita e l’aumento della spesa per interessi. In pratica succede che, a legislazione vigente, le entrate fiscali trainate dalle imposte indirette nel 2023 saliranno al 49,6% del pil, mentre la spesa primaria (al netto degli interessi) continuerà a scendere al 49%, portando così il saldo primario in avanzo dello 0,5%, rispetto al -0,8% previsto dal Def. È come se lo choc inflattivo avesse prodotto una correzione di bilancio di 1,3 punti di pil. A fronte di questo miglioramento c’è un aumento della spesa per interessi, dovuta all’aumento dei tassi, di 0,8 punti superiore alle stime del Def. E così il risultato finale è un deficit al 3,4%, invece che al 3,9%.

È proprio questo mezzo punto il sentiero stretto della Meloni. Di nuovo, circa 10 miliardi. Perché è lo spazio fiscale che consente al nuovo governo di annunciare un disavanzo che è lo stesso obiettivo programmatico indicato da Mario Draghi nel Def: il 3,9%. A questo livello di deficit, il governo proseguirebbe lungo il percorso tracciato da Draghi e riuscirebbe a mantenere il debito pubblico lungo una traiettoria di discesa. Certo, si tratterebbe di un margine non ampio, non in grado di coprire il rinnovo di tutti gli aiuti in scadenza e men che meno le mirabolanti promesse della campagna elettorale. Altre risorse dovrebbero essere ricavate da una revisione della spesa, o delle entrate. Il sentiero alternativo, quello con un deficit ben più ampio, è più pericoloso perché, come si è visto in Inghilterra, rischia di far aumentare lo spread su titoli che hanno già rendimenti elevati. È un sentiero forse più in sintonia con il programma della destra e le aspettative dell’elettorato, ma che potrebbe far precipitare il paese, e anche il governo, giù da un dirupo.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali