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La riforma della Giustizia tributaria funziona, ma è incompleta

Giacinto della Cananea

Pochi giorni fa, il Parlamento ha approvato la legge sulla riforma della Giustizia tributaria, di cui è possibile stilare un bilancio di pregi e difetti. Tra i pregi, il primo è il buon funzionamento delle istituzioni. Al governo Draghi va riconosciuto il merito di aver inserito alcuni obiettivi nel Pnrr e di aver seguito il procedimento legislativo ordinario, l’unico – d’altronde – accettabile per la presidenza della Repubblica. Al Parlamento va dato atto di aver legiferato in poco più di due mesi, sia pure al prezzo d’una compressione del tempo a disposizione della Camera. Un altro pregio della riforma è che sono state recepite varie osservazioni provenienti da studiosi, magistrati e professionisti. Per esempio, sono stati eliminati i limiti inizialmente posti all’appello per le cause di modesto valore ed è stata introdotta una norma transitoria sull’età pensionabile degli attuali giudici tributari. Il terzo pregio è il più importante sotto il profilo istituzionale: la scelta di fondo a favore di una magistratura tributaria non più onoraria, bensì professionale, dotata di magistrati a tempo pieno. Essa conferma la tendenza alla specializzazione che da tempo è in atto in Italia e altrove. Il quarto merito della riforma è l’aver perfezionato la disciplina processuale con l’ammissione della prova testimoniale. Infine, è stata colta l’occasione per stabilire una definizione legislativa delle liti che giacciono presso la Corte di cassazione. Pur se contestata con argomenti tutt’altro che irragionevoli (ogni misura di questo tipo è eccezionale, ma crea l’aspettativa di un’altra, prima o poi), questa scelta è coerente con quella di fondo di voltare pagina e con la necessità di ripristinare le precondizioni affinché la Cassazione possa svolgere efficacemente il proprio ruolo. 

  

Sono stati segnalati, però, alcuni difetti. Il primo è il persistente ancoraggio istituzionale della magistratura tributaria al ministero dell’Economia e delle Finanze, che è parte in causa in molte controversie. Ciò non pregiudica l’avvio della riforma, ma potrebbe, invece, impedirne la riuscita la complessità dei meccanismi previsti per il reclutamento dei nuovi giudici tributari. Esso avverrà tramite un concorso, ma è previsto che cento tra gli attuali giudici tributari provenienti dalla magistratura ordinaria e da quella amministrativa o contabile possano optare per la nuova magistratura tributaria. Il problema è che non sono stati stabiliti adeguati incentivi. Altrettanto può dirsi per gli attuali giudici tributari che provengono dalle professioni (avvocati, dottori commercialisti, consulenti del lavoro). Il terzo difetto riguarda l’assenza di un collegamento tra la nuova magistratura tributaria e la Corte di cassazione, che pure resta il giudice di ultimo grado. Infine, non si è tenuto conto della necessità di rafforzare il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, cioè l’organo di garanzia del suo buon funzionamento. 

  

Quanti hanno a cuore le riforme istituzionali, consapevoli che qualsiasi cambiamento è difficile ed è migliorabile, possono ritenere che i pregi sopravanzino i difetti. E’ necessario – però – che i decisori politici si rendano conto che, in assenza di adeguati incentivi, il rischio che il reclutamento si inceppi va preso molto sul serio. Occorrono, quindi, misure acconce, anche nella prossima legislatura, che si spera ispirata a un sano pragmatismo. 
 

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