(foto EPA)

Tutti i problemi nella Cina dell'imperatore Xi

Ugo Bertone

Covid, guerra in Ucraina e frenata dell’economia: ecco le sfide che dovrà affrontare adesso il gigante asiatico

Il distretto di Chaoyang, con i suoi 3,5 milioni di abitanti, è senz’altro una delle zone più frequentate della Pechino-bene, grazie ai suoi negozi, alle sedi di multinazionali e ambasciate. Anche per questo i mercati finanziari hanno preso con grande serietà l’allarme anti-Covid scattato a Chaoyang lunedì sera, in linea con la severa quarantena che sta mettendo in ginocchio Shanghai, il cuore della potenza economica e finanziaria del Drago, ridotta a condizioni di mera sopravvivenza dalla strategia “Zero Covid”. L’esempio di Shanghai ha convinto i pechinesi a fare scorta di cibo, mentre le autorità hanno esortato le aziende al telelavoro e i dipendenti a non lasciare la città in vista del Primo Maggio.

Una serie di decisioni drastiche che hanno provocato la discesa dei mercati finanziari, in ribasso del 10 per cento abbondante in aprile (ma da inizio anno è andato in fumo un quarto del valore), e dello yuan, ai minimi da quasi tre anni. Non meno impressionanti sono i segnali di frenata dell’economia reale. ”La fiducia delle imprese – si legge in un report di ieri di Standard Chartered – è scesa ai minimi da 26 mesi”. Soffre  più il mercato interno che l’export, sostenuto dalla moneta debole, ma su entrambi grava l’ipoteca dei problemi legati alla crisi dei porti, che non accenna a rientrare. Non stupisce, date le premesse, il calo delle vendite di auto, nonostante i forti sconti garantiti dalla mano pubblica. E lo stesso vale per gli elettrodomestici o per la vendita delle case che, complici i problemi accumulati da Evergrande, non riparte. 

In questo quadro sembra quasi impossibile che la Cina riesca a mantenere il tasso di crescita del 5,5 per cento del primo trimestre. Un dato debole per il Drago, abituato a una velocità di crociera ben superiore ma che, di questo passo, dovrà accontentarsi di un incremento ben inferiore. Un bel guaio per il partito che si accinge a celebrare in ottobre il centenario della nascita e a incoronare Xi Jingping per la terza volta quale lìder maximo a vita. Ma che senso ha, c’è da chiedersi a questo punto, sottoporre centinaia di milioni di cinesi a una quarantena rigida e suicida sul piano economico? 

I numeri del contagio, da quel che si sa, non giustificano una stretta così drastica. Al 22 aprile i pazienti in condizioni gravi ricoverati a Shanghai erano 157, di cui 18 in condizioni critiche. Perché sottoporre il paese a uno stress così logorante? Certo, la storia aiuta a capire certe scelte imperiali. Nei giorni del tramonto della dinastia Qing, accerchiata dalla rivoluzione, l’impero continuò a vietare ai profughi l’ingresso nella capitale per paura del contagio della peste. Si calcola che, per far rispettare una quarantena rigida, l’impero morente impiegasse più di 33 mila agenti, una ogni venti abitanti. Il presidente Xi, in un certo senso, ha deciso di adottare la filosofia degli imperatori Qing.

Applicando la stessa ricetta di fronte alle altre crisi che incombono di qui a ottobre: l’Ucraina e la frenata dell’economia, assieme al Covid, le due spine che minacciano la stabilità dell’impero. La ricetta del regime, ha notato l’Economist, è stata finora la stessa in tutte e tre le emergenze: “Spavalderia e arroganza in pubblico, ossessione per il controllo in privato, risultati dubbi”. Vale per il Covid: il regime non può ammettere che i suoi vaccini, Sinopharm e Sinovac, non sono efficaci contro Omicron quanto i vaccini mRna prodotti in Occidente con il risultato che “più di 130 milioni di persone sopra i 60 anni non sono vaccinate o hanno ricevuto meno di tre dosi”, e perciò corrono “un pericolo maggiore di sviluppare gravi patologie”, come ha rivelato uno studio dell’Università di Hong Kong pubblicato dal Financial Times. Vale per l’economia.

Xi ha messo sotto controllo Alibaba e le altre aziende meno obbedienti alla ricetta della “prosperità comune”.  Il risultato è che funzionari zelanti hanno riaffermato il controllo statale e intimidito gli imprenditori di maggior successo: le prime dieci aziende del paese hanno perso 1.700 miliardi di dollari di valore per essersi trovate all’improvviso vincolate da nuove regole. Il regime sembra puntare su una nuova generazione di startup fedeli al partito, concentrate nelle città dell’interno e ritenute all’avanguardia del cloud, della robotica e dell’intelligenza artificiale. “Ma  molti sono dei bidoni o delle frodi tollerate dai funzionari desiderosi di raggiungere gli obiettivi di sviluppo locale”, sottolinea impietosamente l’Economist. E tra i piccoli imprenditori, scrive il New York Times, cresce il sospetto che le misure anti-Covid servano soprattutto ad abolire le libertà di mercato. In questa cornice, infine, s’inquadra la cambiale “quasi in bianco” firmata a vantaggio di Putin. Troppo in fretta, probabilmente. Ma l’onnipotenza di Xi ha un limite: non può ammettere di aver sbagliato.

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