Il film Covid-horror di Shanghai è il volto dell'autoritarismo cinese

Giulia Pompili

A quasi due anni e mezzo dall’inizio della pandemia, il governo di Pechino continua a perseguire la politica Zero Covid pur di dimostrare la supposta "superiorità" del "modello cinese"

Sembra un film horror quello che sta vivendo ormai da settimane chi risiede nell’area di Shanghai, 26 milioni di abitanti e cuore della produttività e della finanza internazionale cinese. Un lockdown strettissimo a fronte di un numero di casi gravi e di morti per Covid-19 secondo molti non compatibile con le misure prese (ieri 25 mila nuovi casi asintomatici e più di 900 sintomatici, ufficialmente zero morti). Eppure gli ospedali locali spesso non accettano nuovi pazienti, e non è chiaro se sia per il troppo affollamento o per l’accettazione estremamente burocratica. In ogni caso, non si esce di casa, nemmeno sull’uscio, se non autorizzati; i positivi, anche se asintomatici, vengono trasferiti obbligatoriamente nei campi d’isolamento che somigliano molto a delle prigioni, con centinaia di persone stipate in pochi metri quadri e regole di permanenza rigidissime; confusione, poche notizie e incerte.

 

Diversi minori separati dai genitori (le autorità dicono che fosse un errore del protocollo, poi hanno modificato la misura, ma il trauma resta). Per chi rimane fuori dai centri d’isolamento il problema è il cibo: la catena di distribuzione si è rotta, per qualche ragione che nessuno sa spiegare; in molti non sono riusciti a fare scorte prima dell’annuncio del blocco. Decine di testimonianze, anche online, dimostrano che le persone sono costrette a razionare il poco che hanno, e in alcune zone, soprattutto le più povere, la situazione è peggiore che in altre. Ci sono dimostrazioni di proteste e insofferenza da parte della popolazione, e una settimana fa la visita della vicepremier con la responsabilità della Sanità pubblica, Sun Chunlan, non ha migliorato le cose. Il governo locale ha ammesso qualche criticità nel sistema logistico della distribuzione del cibo, ma è difficile spiegare a una popolazione arrabbiata, esasperata e affamata come mai sia così facile organizzare test di massa continui per milioni di persone e non distribuire il cibo. Online bucano la censura i video di malati lasciati fuori dagli ospedali, e la gente si è arrabbiata anche di più quando un cane, che era stato liberato dal proprietario in lockdown che aveva finito il cibo, è stato ucciso a bastonate per strada da un operatore anti-Covid.  

 


A quasi due anni e mezzo dall’inizio della pandemia, il governo di Pechino continua a perseguire la politica Zero Covid, pur essendo ormai considerata insostenibile pressoché ovunque nel mondo. Ma per la Cina si tratta di una questione di vita o di morte: Zero Covid – che a un certo punto è diventata “Zero Covid dinamica”, senza spiegare nei dettagli per cosa stia quel “dinamico” – è l’obiettivo annunciato e ripetuto più volte dal leader Xi Jinping.

 

E’ la vittoria completa sul virus e non la convivenza con esso. Anche venerdì scorso, parlando con chi ha contribuito ai Giochi olimpici invernali di Pechino, Xi Jinping ha detto che “la Cina meriterebbe una medaglia per come ha gestito la pandemia”. Ma il sistema inizia a mostrare il suo vero volto, e le sue crepe. Pechino ha un problema enorme con la politicizzazione estrema di tutto quello che riguarda il governo centrale: ha usato l’approccio all’epidemia occidentale per criticare il “modello americano”, ha usato i suoi vaccini – senza mai avere una politica trasparente sulla loro efficacia – e soltanto di recente ha iniziato ad accelerare l’approvazione dei vaccini a mRna, quelli che in occidente si sono rivelati più efficaci, pur avendoli inizialmente criticati. La situazione a Shanghai è una catastrofe d’immagine per Pechino, anche perché è il luogo dove vivono moltissimi stranieri. Washington ha deciso di evacuare tutto il personale non essenziale da Shanghai per quelle che definisce “detenzioni arbitrarie”, la Camera di commercio Ue ha chiesto a Pechino di rivedere la sua politica. Ma per la Cina è una catastrofe anche economica: Shanghai è un pezzo vitale dell’economia cinese sia interna che nei rapporti con l’estero, e l’incertezza di possibili nuovi lockdown, unito all’autoritarismo sempre più inquietante della leadership di Xi Jinping, sta portando molte aziende internazionali a lasciare definitivamente la Cina. Negli ultimi giorni si parla molto, tra analisti e osservatori di questioni cinesi, dell’incomprensibile situazione a Shanghai e della possibilità che sia parte di un gioco di potere, in vista del Congresso del Partito del prossimo autunno.  Solo i più falchi sostenitori del regime di Pechino riescono a politicizzare anche questo disastro: la situazione tornerà presto alla normalità e chi ha sbagliato pagherà, dicono. Ma i residenti non sapranno mai di chi è davvero la colpa, e non potranno mai scegliere di farsi rappresentare da qualcun altro.  

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.