Tassi di interesse, inflazione e crescita: il dilemma della Bce

Filippo Passeri

Riccardo Trezzi, professore di economia internazionale all’università di Ginevra, illustra al Foglio l’attuale situazione monetaria europea

In un’editoriale del Financial Times, Moritz Kraemer – chief economist della banca tedesca Lbbw – spiega che l’Italia si trova al riparo da eventuali crisi debitorie anche se la Banca centrale europea dovesse alzare i tassi di interesse, come sembra voglia fare, per combattere l’aumento dei prezzi. Kraemer, che proviene da un mondo economico storicamente preoccupato per l’inflazione, precisa che il Belpaese è in una posizione migliore rispetto a quel che diversi osservatori credono. Uno dei motivi è da ricondurre all’inflazione stessa che, al netto dei problemi per famiglie e imprese, sta rosicchiando e riducendo l’enorme debito pubblico italiano. È di aiuto anche il fatto che i tassi di interesse che l’Italia paga su quest’ultimo siano bassi, circa il 2 per cento, molto al di sotto del tasso inflattivo attuale. Inoltre, continua Kraemer, il paese ora ha un governo forte e competente che rappresenta un fattore di stabilità economica. Per cui, conclude il chief economist, la preoccupazione della Bce dovrebbe essere quella di fermare l’inflazione senza crucciarsi delle conseguenze che una politica monetaria realizzata per far ciò avrà nei paesi dell’Ue, Italia in primis.

 

Ma le cose sono più complicate di così. Sebbene Kraemer abbia ragione sul fatto che l’Italia disponga delle carte in regola per affrontare un aumento dei tassi di interesse, ciò comporterà, molto probabilmente, una frenata della crescita, che a causa dei vari shock esterni (coda lunga del covid e guerra su tutti) sta già rallentando. Riccardo Trezzi, economista ex Bce e Fed e professore di economia internazionale all’università di Ginevra, illustra al Foglio l’attuale situazione monetaria europea. In primis, ci dice Trezzi, “è da tenere in considerazione che il problema inflattivo europeo è diverso da quello statunitense”. Il primo è dovuto principalmente allo shock energetico e l’inflazione di fondo rimane accettabile mentre il secondo risente precipuamente dello stimolo fiscale adottato dalla Fed che si è sostanziato in un’iniezione di liquidità diretta, attraverso assegni, nelle tasche dei cittadini, cosa che non è avvenuta nell’Unione europea; ciò ha portato a un boom di acquisti di beni durevoli che ha trainato la crescita costante dell’inflazione negli Stati Uniti. Questo significa che, negli Usa, sia il lato della domanda (acquisti dei consumatori) che quello dell’offerta (aumento dei prezzi delle materie prime e dell’energia) sospingono l’inflazione, mentre in Ue il problema inflattivo può essere imputato essenzialmente al secondo versante. “E per una banca centrale – ci spiega Trezzi - intervenire sul lato dell’offerta è molto più difficile che farlo su quello della domanda perché alzare i tassi di interesse significa aumentare il costo del prestito del denaro così da far rallentare la crescita economica e di conseguenza inflattiva”. Questo chiarisce, in parte, perché la Fed abbia già alzato i tassi di 25 punti base a marzo mentre la Bce rimanga più titubante. Un rialzo comporterebbe un rallentamento della crescita, già zoppicante, a fronte di un effetto nullo, o quasi, sul versante dell’offerta che rappresenta il vero traino dell’inflazione nell’Unione europea. Trezzi ci rivela che, nonostante ciò, a breve la Bce interverrà con questa manovra monetaria per una questione più politica che economica: gli stati nordeuropei sono storicamente più preoccupati dell’inflazione e ne stanno risentendo maggiormente rispetto ai paesi del sud.

 

“La soluzione - continua Trezzi - potrebbe essere un mix di politiche fiscali e monetarie che riesca a non far rallentare troppo bruscamente la crescita da una parte e combattere la spirale inflazionistica dall’altra. All’aumento dei tassi di interesse dovrebbe far da contraltare uno stimolo fiscale – che si potrebbe sostanziare in trasferimenti diretti a famiglie e imprese, un tetto al prezzo del gas o l’espansione delle spese militari – anche se, dopo due anni segnati da pandemia e guerra, lo spazio per intervenire è molto ristretto”. In conclusione, sebbene l’Italia si trovi in una posizione di stabilità economica, un aumento dei tassi di interesse comporterà, inevitabilmente, una frenata della crescita che potrebbe essere più dannosa rispetto all’aumento di qualche punto di inflazione.

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