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Primi pensierini della Fed sul rialzo dei tassi, ed è già allarme 

Giuseppe DeFilippi

L’interpretazione dei dati sull’inflazione e dell’economia nazionale negli Stati Uniti è un vero rebus. Ora la Bce mantenga la calma e mostri, anche pubblicamente, fiducia nel proprio programma di politica monetaria

I mercati azionari, prima in Asia e in Europa, e poi in casa – negli Stati Unitihanno reagito come dovevano, con sensibili ribassi, alla lettura delle minute, i resoconti degli interventi, nel consiglio che guida la Federal Reserve. L’orientamento emerso, con appuntamento già prevedibile in marzo, è verso un’accelerazione sia del cammino verso il rialzo dei tassi di interesse sia della riduzione del bilancio della banca centrale tramite minori acquisti di titoli di stato, quindi minore finanziamento del deficit nazionale. Un doppio colpo cui le Borse hanno risposto mischiando l’opportunismo di qualche prima correzione al ribasso, dopo mesi di corsa verso record di capitalizzazione, e la concretissima paura per la nuova stagione di politica monetaria.

Il rebus resta nell’interpretazione dei dati sull’inflazione e, più in generale, dell’economia nazionale negli Stati Uniti. Come sempre le minute delle riunioni di politica monetaria vengono rese pubbliche, in omaggio alla trasparenza e come strumento per rendere prevedibili e quindi (per l’effetto delle aspettative) anche più efficienti le decisioni del board su tassi e operazioni di mercato aperto, cioè acquisto o vendita di titoli. Ma, volutamente (e come corollario alle due ragioni esposte prima), passano alcuni giorni dalle riunioni alla pubblicazione delle carte. Quelle che ieri hanno messo sotto pressione le Borse mondiali riportano quanto detto nella riunione del principale comitato della Fed nei giorni 14 e 15 di dicembre. Il punto di partenza delle valutazioni sull’andamento dell’economia degli Stati Uniti è stato il mercato del lavoro. Secondo i banchieri centrali americani l’occupazione e i livelli salariali sono arrivati a un livello sufficientemente positivo e non richiedono più di essere sostenuti con azioni di politica monetaria, quindi con il livello straordinariamente basso dei tassi di interesse. Un indicatore tra tanti, quello del mercato del lavoro, viene usato come strumento principale per capire se e quanto l’economia si è avviata verso una fase espansiva e quanto questo fenomeno influenzi l’intera popolazione e i redditi.

 

Già l’andamento di occupazione e salari potrebbe essere sufficiente per giustificare il rallentamento e poi l’interruzione degli stimoli monetari straordinari decisi durante la pandemia e, in parte, ancora influenzati dalle politiche molto forti di recupero decise dopo le crisi finanziarie tra il 2008 e il 2011. L’inflazione in salita e il timore, sempre più fondato secondo gli analisti della Federal reserve, che si tratti di un fenomeno duraturo e non estemporaneo, è come se andasse ad aggiungersi a valutazioni già ritenute sufficienti per un cambio di politica monetaria. Nel dibattito più ampio, che si svolge su scala nazionale, sui giornali e sulla scena politica e non solo nelle riunioni del comitato della banca centrale, l’inflazione americana viene vista da molti come se non proprio passeggera certamente composta da elementi che, invece, passeggeri lo sono. Certamente vale per alcuni prezzi dell’energia e, ancora di più, per i tanti beni ora resi più costosi a causa della riduzione mondiale dell’offerta di chip e di altri prodotti intermedi necessari.

 

Paul Krugman ha osservato come, per la prima volta da più di un decennio, a correre di più sono i prezzi dei servizi rispetto a quelli dei beni durevoli. E’ l’inversione del processo positivo che grazie alla globalizzazione e ai continui miglioramenti tecnologici aveva consentito di tenere bassa la dinamica dei prezzi di prodotti sempre più utilizzati e sempre più, a loro volta, capaci di rispondere a esigenze multiple e quindi a sostituire l’acquisto di altri dispositivi (con un effetto indiretto di contenimento dei prezzi). Anche di fronte a considerazioni di questo genere può essere comprensibile l’obiettivo di cambiare il passo della politica monetaria, ma, da parte degli osservatori americani, si chiede comunque molta prudenza e nessuno spirito ultimativo da guerra all’inflazione.

 

Alla Banca centrale europea ora il compito di mantenere la calma e mostrare, anche pubblicamente, fiducia nel proprio programma di politica monetaria, fatto di riduzione molto graduale degli interventi sul mercato dei titoli e di mantenimento, almeno per un anno, dell’attuale livello dei tassi di interesse. La politica monetaria ha fatto tanto per consentire di superare la crisi pandemica, rovinare tutto alla stretta finale sarebbe imperdonabile.

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