L'intervento

Cosa possono insegnare le piccole imprese all'Italia per superare la crisi

Sergio Silvestrini

Quando pensavamo a come ristrutturare l'economia, duramente segnata dalla pandemia, ci siamo trovati ad affrontare la guerra. In questo panorama di grandi discontinuità ci viene in soccorso la resilienza e l'energia delle pmi

Scorrendo il copioso elenco di shock che hanno sconvolto il pianeta negli ultimi vent’anni dobbiamo prendere atto che la ragionevole aspettativa di sapere ciò che ci riserverà il mondo – ossia la nostra “sicurezza ontologica”, secondo la felice definizione di Antony Giddens – ha cominciato a traballare pericolosamente. Grandi discontinuità che si affiancano a questioni ormai annose ma sempre più pressanti (il global warming su tutte, ma anche l’impoverimento demografico che si registra sul fronte occidentale). Certo, a fronte di ogni grande crisi si attivano energie positive, si aprono processi di ripensamento, si dischiudono nuove opportunità: “non sprecare la crisi” è il mantra circolato negli ultimi anni. Ma questa è soprattutto una speranza, alla quale, nel migliore dei casi, cerchiamo di dar corpo e concretezza. Quello che invece appare in modo incontrovertibile è il montante “disagio dell’incertezza”, assieme ad un oggettivo aumento della nostra esposizione al rischio. Possiamo fare tanti importanti distinguo, ma è evidente che le crisi ruotano intorno alla difficile composizione tra il “bello e il brutto” della globalizzazione. Proprio mentre noi tutti ci domandavamo quali segni avrebbe lasciato la pandemia sul commercio mondiale e sulle catene globali del valore, ci siamo trovati nella condizione di dover rimettere in gioco scelte economiche, processi produttivi, destini di comunità, a partire da fatti di natura geo-politica. 


A ben guardare le grandi discontinuità sono nate da fenomeni di cui ignoravamo la rilevanza – come i famigerati mutui subprime – e da luoghi di cui non conoscevamo neppure il nome: vale per Wuhan come per il Donbas. Fenomeni con impatti globali, in un mondo profondamente anche se non omogeneamente interconnesso.
Ci salverà la scienza? Ci salverà il digitale? Ci salverà l’appartenenza ad organizzazioni sovra-statuali? Forse, ma solo in parte. Certamente non ci salveremo senza la politica, che dovrà recuperare un ruolo non più di semplice accompagnamento dei processi sociali ed economici. E’ necessario che la politica compia un ulteriore passo in avanti, e due sembrano le direzioni da intraprendere: la prima sono le grandi scelte strategiche che dovrebbero essere costantemente orientate a valutare gli impatti sul sistema economico e sociale del Paese; la seconda è l’azione di puntello e di valorizzazione del nostro storico modello di sviluppo, intrinsecamente soggettuale e molecolare, dalle cui “vibrazioni” dipendono la crescita del Paese e conseguentemente l’occupazione e la stabilità del sistema sociale.


Sul primo fronte, la questione si pone nei termini di una drammatica attualità. E’ evidente, infatti, che una uscita totale dalla dipendenza energetica dalla Russia pone un dilemma di non poco conto: da un lato la questione di una scelta geo-politica guidata da un principio etico ad elevata condivisione, dall’altro lo spettro di una vittoria di Pirro. La politica dunque scelga, ma offrendo ampia garanzia di aver valutato attentamente gli impatti di sistema, le alternative, e lo scenario futuro nel quale gli italiani si troveranno ad abitare.
Sulla seconda questione è importante ricordare che per reagire alle crisi globali serve una intelligenza centrale e una partecipazione di sistema. E’ stato così con il Covid che ha visto la verticalizzazione dei poteri pubblici e il reclutamento e l’impegno dei soggetti minuti in tutti i gangli del sistema. La nuova sfida del conflitto in Europa impone lo stesso approccio. Servono le grandi scelte ma occorre anche il coinvolgimento dei tanti soggetti che innervano il tessuto produttivo italiano. Tanti sono gli esempi possibili: nella complessa partita energetica e ambientale non è possibile trascurare il potenziale che può derivare dal coinvolgimento delle PMI nella produzione di energia rinnovabile. 


Nell’export circa 111mila micro e piccole imprese italiane (quasi il 90% del totale che esporta) realizzano sul mercato globale un fatturato che sfiora i 90 miliardi (il 20,4% dell’intera manifattura italiana). Dopo la pandemia hanno mostrato di possedere una grande resilienza ripartendo più forte e più velocemente delle altre in Europa, ma oggi vanno salvaguardate dagli effetti del conflitto. Vanno sostenute, incoraggiate, accompagnate su altri mercati. Ci sono poi le questioni tutte interne, da tempo irrisolte, del fisco, della burocrazia, dell’accesso al credito. Un modello molecolare richiede innanzitutto una “bassa soglia di accesso” per favorire la partecipazione imprenditoriale. 


In quest’ottica sono ancor più evidenti i limiti dell’annoso dibattito sulla piccola dimensione d’impresa quale ostacolo alla competitività del sistema produttivo italiano. Le piccole imprese sono e resteranno l’ossatura del nostro sistema, con la loro vocazione a presidiare il “bello e ben fatto”, ad apprendere ed innovare per contaminazione, ad adattarsi rapidamente e a “sentire” il mercato. Sono attitudini ed energie che fanno parte della forza del nostro Paese, preziose anche in epoca di grandi discontinuità. Per questo vanno difese e indirizzate, accompagnandole anche là dove si intravede un cambio di paradigma.

Sergio Silvestrini 
segretario Generale CNA

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