"Sul Rdc Draghi e Orlando sono rimasti a guardare", dice il consulente di Orlando

Luciano Capone

Intervista a Cristiano Gori, membro del Comitato scientifico del ministero del Lavoro. "Tante inutili proteste sui furbetti, ma i problemi del Redito sono altre. Ma M5s e destra hanno fatto vincere lo status quo"

Il dibattito sul Reddito di cittadinanza ha partorito il topolino. Il governo ha introdotto modifiche dal forte impatto mediatico (la “stretta” contro gli abusi), ma senza affrontare i problemi strutturali della misura. Come si è arrivati a questo esito? “Basta guardare agli attori in campo”, dice Cristiano Gori, membro del Comitato scientifico per la valutazione del Rdc del ministero del Lavoro. “Da una parte i difensori dello status quo, come il M5s, i cui obiettivi erano aumentare il finanziamento della misura ed evitare il taglio del sussidio per qualunque utente: così è stato. Dall’altro i detrattori, Lega, FdI e Iv, il cui obiettivo era la cancellazione del Rdc: hanno ottenuto interventi di dubbia utilità ma dal forte messaggio politico. Hanno vinto entrambi”. 


Cristiano Gori, professore di politiche sociali dell’Università di Trento, è uno dei più profondi conoscitori del tema: è stato l’ideatore dell’Alleanza contro la povertà, che ha portato alla nascita del Rei, ed è il curatore del rapporto Caritas sul Reddito di cittadinanza. E, oltre ai conservatori degli opposti estremismi, gli altri attori di questa partita che ruolo hanno avuto? “C’è una terza categoria, quella degli osservatori, composta da Palazzo Chigi, ministero del Lavoro e Pd, che sostanzialmente non hanno preso alcuna posizione”. Se ci sono i vincitori e gli spettatori, chi sono gli sconfitti in questa partita? “I riformisti, coloro i quali ritengono che ci debba essere una misura di reddito minimo contro la povertà ma che il Rdc vada profondamente migliorato. Non sono mai entrati nella partita, hanno perso a tavolino”.


Un esempio di questa sconfitta è la cancellazione, fatta notare dal Foglio, di quello che era un incentivo al lavoro per i beneficiari: la riduzione stabile all’80 per cento dell’aliquota marginale. Ora se un percettore guadagna un euro lavorando ne perde uno di sussidio. La norma puntava a lasciare in tasca 20 centesimi per ogni euro guadagnato, per rendere il lavoro un pochino conveniente. “Quella misura faceva parte di una strategia completa di maggiore avvicinamento al lavoro dei poveri. Una strategia che include l’estensione degli incentivi alle imprese anche per casi di lavoro a tempo determinato o part time e il coinvolgimento delle Agenzie (private) per il lavoro nella ricerca di occupazione. La riduzione delle tasse era la terza gamba, di un disegno coerente che migliorava gli incentivi su ogni attore: l’impresa, le agenzie di collocamento e chi cerca occupazione”.


Insomma, meno centralismo e più meccanismi di mercato. Il premio Nobel Edmund Phelps direbbe che si tratta di ottenere risultati di sinistra attraverso mezzi di destra. “In un paese dove la Pa è debole, e lo abbiamo visto con i dati dei Centri per l’impiego, è chiaro che devi giocare di più sugli incentivi. Nel nostro contesto, queste leve di mercato hanno un valore aggiunto molto superiore. Tra l’altro la riduzione stabile dell’aliquota marginale all’80 per cento era comunque poca cosa, bisognerebbe scendere al 60 per cento. Ormai la metà dei paesi Ocse usa questo tipo di meccanismi”. Sono però state introdotte penalizzazioni nei confronti di chi rifiuta il lavoro. “Mantenendo l’aliquota vicina al 100 per cento l’incentivo a rifiutare la prima offerta è altissimo, e se anche perdi 5 euro al mese ti conviene sempre rifiutarla. Aggiungere penalità e sanzioni non è utile, i dati Ocse dicono che l’Italia ha già l’indice di rigidità di reddito minimo più severo d’Europa. Ma non è efficace. Il sistema della condizionalità viene usato pochissimo proprio perché è troppo severo. Irrigidirlo ancora di più non serve a molto, se non a rendere le sanzioni sempre meno credibili”.


Quale poteva essere un’altra misura di buon senso? “Ridurre l’importo per i single per incrementarlo alle famiglie numerose, che sono penalizzate”. Ma nessuno vuole toccare il livello dell’assegno, nonostante la scala equivalenza sia uno dei grandi problemi genetici del Rdc riconosciuto da tutti. “In Italia comparativamente ad altri paesi, sono tanti i non poveri che prendono il Rdc: il 40 per cento dei percettori secondo la Caritas, il 50 per cento secondo la Banca d’Italia. Allo stesso tempo una grande fetta di persone bisognose è esclusa: il 55 per cento dei poveri assoluti non beneficia della misura. C’è un errore di targeting, ma questo vuol dire che il problema vero è il disegno della misura, non le frodi di cui tanto si parla”. 


Altre distorsioni su cui intervenire? “La soglia unica nazionale crea disparità in un paese con un costo della vita così differenziato, l’effetto è che al nord si riduce il numero di beneficiari e al sud vengono offerti importi non di rado vicini ai livelli salariali. L’Inps ha stimato che il 45 per cento degli occupati nel settore privato nel sud riceve un reddito netto da lavoro inferiore al Rdc. Nel 2020 su 100 poveri del nord ci sono 41 percettori di Rdc, e su 100 poveri del sud ci sono 123 percettori del reddito. La distanza è molto grande”. Ma è un problema, anche per le risorse in gioco, molto più rilevante del tema dei cosiddetti furbetti. “Non c’è paragone, le frodi riguardano circa l’1 per cento dei casi. L’esito di una stagione di grande attenzione su questa misura è stato, paradossalmente, quello di spostare lo sguardo lontano dalle cose importanti”.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali