il libro

La sinistra anti Piketty in un gran saggio di Salvati e Dilmore

Sergio Belardinelli

Il cambio di paradigma economico inaugurato dalla risposta alla pandemia apre spazi politici insperati per la sinistra occidentale. Ma il rischio è di sprecare l'occasione per correre dietro ai revanscismi contro la proprietà e il mercato. Solo il liberalismo può aiutare i progressisti a evitare il suicidio

Che la grande crisi economica del 2007-2008 e la pandemia abbiano dato uno scossone sia ai princìpi su cui si sono basate le politiche economiche mondiali degli ultimi trent’anni, sia al blocco sociale in loro sostegno, ridando un certo vigore alla sinistra politica un po’ in tutto il mondo occidentale non è una novità. Ma non si può certo dire che, a sinistra, tutti la vedano allo stesso modo in ordine a come fronteggiare i molti problemi nuovi che abbiamo di fronte. Scampato il pericolo (non solo per la sinistra) di una rielezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti e mutate le prospettive in senso più solidaristico nella politica dell’Unione europea si direbbe che le condizioni sociali e materiali per un rilancio dei partiti di sinistra siano piuttosto favorevoli, ma non è detto che l’occasione venga colta, specialmente se dovessero prendere piede revanscismi statalisti contro la proprietà e il mercato, invero mai sopiti e oggi ritornati in auge anche grazie al successo planetario di Thomas Piketty, tanto per fare un nome. 


Su questi problemi, su come interpretarli e su quale potrebbe essere una proposta politica adeguata a fronteggiarli, Michele Salvati e Roberto Dilmore hanno appena pubblicato da Feltrinelli un libro che, specialmente a sinistra, tutti dovrebbero leggere: Liberalismo inclusivo. Un futuro possibile per il nostro angolo di mondo. A differenza del “liberalismo senza vincoli” o “fondamentalismo di mercato”, l’intento dei due autori è quello di “tenere strettamente uniti gli aspetti più desiderabili di una concezione liberale e di una socialista”, nella convinzione che “senza l’estensione dei benefici conseguenti a mercati liberi alla grande maggioranza della popolazione, un regime politico liberale non solo è eticamente indifendibile, ma può diventare fonte di instabilità economica, sociale e politica in un contesto liberaldemocratico”. E’ questo, in estrema sintesi, il senso del loro liberalismo inclusivo, meritoriamente (per me) assai lontano anche dalle “istanze monopolistiche” (vengono definite così) del “socialismo partecipativo” di Thomas Piketty, “le cui chance di successo sono quasi inesistenti”, ma che, aggiungo io, potrebbero anche rappresentare una sirena irresistibile per la sinistra, specialmente per quella italiana. 


Un po’ come negli anni Trenta il New Deal rooseveltiano e l’esperienza delle socialdemocrazie scandinave mostrarono la validità del paradigma teorico keynesiano, ponendo così le basi per il successo di quello che gli autori chiamano “il compromesso socialdemocratico” degli anni del secondo dopoguerra, allo stesso modo le politiche di Margareth Thatcher e Ronald Reagan aprirono la strada all’affermazione del paradigma neo-liberale (Milton Friedman e Friedrich von Hayek) che avrebbe tenuto banco fino alla crisi del 2007-2008. Ma oggi, questa la tesi di Salvati e Dilmore, le condizioni sarebbero favorevoli all’affermazione di un nuovo paradigma che sappia garantire “una crescita inclusiva e sostenibile”. Ce lo dicono, tanto per fare qualche esempio, il degrado ambientale, i cambiamenti climatici, l’aumento delle disuguaglianze e, ultima, la pandemia; ma ce lo dicono anche l’elezione di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti, le nuove politiche dell’Unione europea e, potremmo aggiungere, la recentissima vittoria dei socialdemocratici in Germania. Eppure, secondo i due autori, lo scenario non va preso con troppo ottimismo. Intanto perché non è affatto sicuro che le forze di sinistra sapranno evitare la lievitazione del cosiddetto “debito cattivo”, come lo chiama Mario Draghi, né che sapranno rimuovere il sempre incombente pregiudizio ideologico contro la proprietà privata; e poi perché all’orizzonte c’è ancora “la gravità della minaccia populista e etno-nazionalista” che, facendo leva sulle questioni identitarie, cercherà di “minare la coesione del blocco sociale in formazione”, al pari di coloro che, “convinti della bontà dell’ordine neoliberista, vedranno nel nuovo paradigma un ritorno allo statalismo”.  


Significativo il capitolo in cui viene spiegato perché il tempo presente non consente una riedizione del compromesso socialdemocratico e vengono mostrati i fronti di rottura che accreditano questa convinzione: in primo luogo la trasformazione del capitale, fattosi non soltanto molto più mobile anche in quanto “capitale fisico”, ma “intangibile”; in secondo luogo l’enorme frammentazione del mondo del lavoro; in terzo luogo il cambiamento/indebolimento degli attori politico-sociali tradizionali (partiti, sindacati, imprenditori) a vantaggio di altre organizzazioni, tipo quelle in difesa dei consumatori, dell’ambiente e degli immigrati, o quelle che si battono contro le discriminazioni di genere. In sostanza, secondo Salvati e Dilmore, oggi si deve certo pensare a un rafforzamento dei tre principali attori del compromesso socialdemocratico, ma “l’accresciuta complessità delle società richiede un importante ampliamento della platea di riferimento” che includa anche altri attori della società civile. Quanto allo stato, i due autori sottolineano come la crisi economica e la pandemia lo abbiano prepotentemente rimesso al centro per evitare il peggio. “Sarebbe tuttavia un errore, scrivono, pensare che il ritorno dello stato sulla scena sia di per sé sufficiente ad aprire una nuova fase nella crescita delle economie avanzate. Senza un nuovo paradigma e una nuova narrativa di riferimento, il ritrovato dinamismo dello stato rischia di smorzarsi rapidamente”. E ritorniamo così al “liberalismo inclusivo”, la narrativa che dovrebbe diventare la prospettiva politico-culturale egemone dei prossimi anni sotto forma di un “Patto per la crescita inclusiva e sostenibile”.


Salvati e Dilmore sviluppano questa prospettiva guardando soprattutto al centrosinistra dell’“angolo di mondo” occidentale, ma è ovvio che le sfide da cui muovono riguardano anche culture politiche che di sinistra non sono. Forse è per questo che in molte pagine di questo libro, sorprendentemente, mi sono sentito in profonda sintonia con i due autori. La loro insistenza sulla necessaria “difesa della democrazia rappresentativa liberale in un contesto di mercato”, sulla “libertà economica intesa come garanzia della proprietà privata e della libertà d’impresa”, sulla crescita economica come prerequisito di ogni riforma sociale, sul ruolo dello stato nell’economia “diverso e meno diretto di quello esercitato nel periodo del compromesso socialdemocratico” e, ultimo, sul realismo necessario a elaborare strategie politiche nazionali e internazionali cooperative, non demagogiche che abbiano qualche speranza di successo; la loro insistenza su questi temi, dicevo, può essere senz’altro bene accolta anche da chi simpatizza per culture politiche liberali non di sinistra. Ma la domanda è: a sinistra preferiscono Salvati/Dilmore o Piketty?

Di più su questi argomenti: