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Arendt, Von Hayek e l'utopia dell'uomo padrone del suo destino

Sergio Belardinelli

Elogio dell’incertezza e dell’imprevedibile, antitetici alle sicurezze impossibili

Un infantile e pericoloso paradosso attraversa nel profondo la nostra cultura: da un lato, almeno a parole, amiamo a tal punto la libertà da non riuscire più in alcun modo ad accettare ciò che non dipende da noi; dall’altro questa nostra volontà di tenere tutto sotto controllo, favorita indubbiamente anche dallo sviluppo scientifico-tecnologico, sembra generare un bisogno di sicurezza difficilmente compatibile con la libertà. Che si tratti di vincoli “naturali” o “socio-culturali”, la nostra idiosincrasia nei loro confronti è ormai sempre più palese. Sono libero soltanto a condizione che sia padrone della situazione e possa fare ciò che desidero. Una forma di infantilismo che, a pensarci bene, contrasta apertamente proprio con il carattere più importante dell’umana libertà: quello di essere, in quanto tale, generativa di imprevisti e di imprevedibilità, di condizioni, quindi, sulle quali nessuno potrà mai avere il completo controllo.

Gli uomini nascono in un mondo che già esiste prima del loro arrivo e muoiono lasciandolo a coloro che verranno dopo; per usare un’espressione di Benedetto Croce, la nostra libertà si esercita sempre “non già nel vuoto ma in una situazione determinata”. Il che vuol dire che gli usi e i costumi della nostra comunità, le strutture e le istituzioni sociali, gli altri uomini, tutto ciò con cui in un modo o in un altro entriamo in relazione finisce per diventare una “condizione” e un “condizionamento” della nostra libertà. Nessun uomo può dirsi “autosufficiente”, “padrone” di sé e della situazione in cui vive; volenti o nolenti, dipendiamo dagli altri. Come dice Hannah Arendt, gli uomini, non l’uomo, abitano la terra; dobbiamo insomma fare i conti con una realtà sociale, la quale non è mai un “prodotto” intenzionale delle nostre scelte, né la risultante di qualche legge immanente. Non esistono leggi immanenti alla società, del tutto indipendenti dalla libertà degli uomini, né la società può configurarsi come l’esito di un qualsiasi “disegno” umano. Soltanto una minima parte di ciò che storicamente accade è il risultato della nostra volontà e delle nostre intenzioni; il resto, cioè la maggior parte degli eventi individuali e storico-sociali, uso parole di Friedrich von Hayek, va considerato come “risultato inintenzionale, e non voluto, di una molteplicità di persone”. 

Si tratta di un’idea molto importante, che non soltanto avvicina due autori come Hannah Arendt e Friedrich von Hayek, ma che, abbastanza sorprendentemente, trova sostegno anche in San Tommaso d’Aquino, il quale, non a caso, si guardava bene dal confondere il bonum totius universi, del quale Dio, e Dio soltanto, si preoccupa, con l’ambito di cui deve ritenersi responsabile ciascuno di noi. L’universo, contrariamente a quanto ritengono gli utopisti e i pianificatori universali, è troppo complesso perché gli uomini possano orientare il loro agire alla sua ottimizzazione. Di conseguenza, secondo Tommaso, noi dobbiamo volere soltanto “ciò che Dio vuole che noi vogliamo”; dobbiamo cioè limitarci a seguire la legge morale, cercando di misurarla sempre sulla realtà, senza alcuna presunzione di farci carico di una responsabilità per tutto ciò che accade.

Per dirla ancora con le parole di Hayek, se c’è un ordine del mondo, questo non potrà mai scaturire dai “disegni” umani; ci sono piuttosto vari tipi di “ordine”, tutti spontanei (quello economico, quello giuridico, quello morale), i quali, interagendo tra loro, producono un ordine superiore, spontaneo a sua volta. Evangelicamente parlando, siamo insomma tutti “servi inutili” e le vie della Provvidenza divina sono umanamente imperscrutabili. Ma non dobbiamo lamentarcene. Al contrario. Questa impossibilità di essere gli unici padroni di ciò che facciamo, di conoscerne le conseguenze e quindi di non poter “contare sul futuro” è infatti il prezzo che gli uomini pagano per la pluralità e la libertà, diciamo pure con Hannah Arendt, “per la gioia di abitare insieme con gli altri un mondo la cui realtà è garantita per ciascuno dalla presenza di tutti”: un prezioso alleggerimento delle nostre responsabilità in ordine al destino del mondo, che considero una premessa molto importante per ridare vigore alla libertà e alla dimensione morale dell’agire umano. Nessun uomo potrebbe infatti presumere di agire moralmente se fossimo responsabili per tutte le conseguenze delle nostre azioni. Se agiamo, è soltanto perché possiamo chiudere gli occhi di fronte  alla nostra ignoranza, alle tante possibili alternative e ai tanti possibili aspetti del nostro agire, indipendenti dai nostri propositi soggettivi e dall’ambito normativo nel quale hanno luogo. Il nostro agire responsabile presuppone sempre una certa misura di irresponsabilità. Per nostra fortuna non dobbiamo rendere conto di tutte le conseguenze di ciò che facciamo. Una leggerezza salutare. Ma vallo a dire ai tanti pianificatori universali che sono all’opera ovunque per garantire soprattutto la nostra sicurezza. Così, anziché lavorare per abituarci a vivere in un’ineludibile incertezza, che oltre a essere gratificante potrebbe anche aiutarci a guardare gli altri (e noi stessi) con maggiore indulgenza, preferiamo andare dietro a sicurezze impossibili.

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