Il discorso sulle “quattro libertà” di Roosevelt (nella foto durante la campagna del 1932) rappresentò un metodo sottile per convincere gli americani che lo stato si sarebbe preso cura di loro

La mano visibile

Antonio Donno
Felix Morley non temette di paragonare Roosevelt a Marx, e descrisse l’ombra lunga del New Deal su tutto il XX secolo. Uno studioso del federalismo e della politica estera degli Stati Uniti riletti alla luce dei princìpi fondatori delle libertà americane.

“La condizione primaria per una società libera (…) è che i suoi membri, a qualsiasi gruppo sociale essi appartengano, siano costantemente all’erta di fronte al pericolo costituito dall’estensione del controllo dello stato” (Felix Morley)

 

Immediatamente, durante la sua prima amministrazione, Roosevelt mostrò tacitamente la sua intenzione di distruggere la libertà economica negli Stati Uniti, sostenendo allo stesso modo di Karl Marx, sebbene più obliquamente, che questa condizione era più un male che un bene”. Questa frase, così pungente e apparentemente esagerata nell’accostamento di Franklin Delano Roosevelt a Marx, fu scritta da uno dei pensatori liberali più importanti nella schiera degli oppositori del New Deal del presidente democratico, Felix Morley, in “The Power of the People”, del 1949. A differenza di molti liberali e conservatori americani degli anni Trenta e Quaranta, dediti al giornalismo o alla saggistica legata all’immediatezza della polemica politica, come William Buckley, Jr., Morley era un profondo studioso del federalismo americano e della storia della politica estera degli Stati Uniti riletta alla luce dei princìpi fondatori delle libertà americane. Il suo accostamento di Roosevelt a Marx non era peregrino, perché egli vedeva nello statalismo newdealista un vero e proprio processo di scardinamento dei princìpi liberali che avevano dato vita alla nazione americana.

 

Soprattutto se si tiene conto dello specifico clima degli anni Trenta, in cui il socialismo marxista, con la sua promessa di “liberazione” degli sfruttati, faceva breccia in ogni parte del mondo e soprattutto in Occidente, compresa l’America della Grande Depressione, si può comprendere come Morley reputasse con preoccupazione che la “mano benevola” dello stato potesse distruggere la libertà economica che era il fondamento della libertà americana. E sosteneva questo di fronte a una diffusa concezione: “Vi sono molti americani intelligenti, oggi, che ritengono che uno stato dotato di tutti i poteri e centralizzato sia inevitabile. (…) La perdita della libertà è cosa biasimevole; ma è il prezzo che si deve pagare per il nostro progresso materiale”. Morley scriveva questo in “The Necessary Conditions for a Free Society”, nel 1963, e, benché il New Deal fosse apparentemente lontano, esso aveva lasciato nella politica e nella società americane un’eredità dura da superare, anzi ancor più pericolosa nel suo radicamento nella mentalità comune.

 

Felix Morley (1894-1982) fu un pensatore in bilico tra l’Old Right americana e il libertarianism e, sebbene le due posizioni spesso non coincidessero, egli ebbe l’intelligenza di cogliere i dati comuni dei due movimenti e di coniugarli in un’ottica di contestazione radicale della filosofia del New Deal, e dello statalismo in generale, intesi come un-American in tutto e per tutto. Il suo ragionamento era stringente: l’alta tassazione, per Roosevelt, dovrebbe liberare l’individuo dal bisogno per mezzo del welfare, ma è proprio la stessa libertà individuale a essere “colpita, regimentata e distrutta dal welfare state, e di conseguenza l’intera società”, perché “lo stato (…) è essenzialmente un’organizzazione fondata sulla forza”. Qui, la posizione espressa da Morley è tipicamente libertarian, per quanto anche i seguaci dell’Old Right anti-newdealista avessero puntato i loro strali contro un’imposizione fiscale da parte dello stato che distruggeva la libertà individuale di servirsi del proprio denaro anche, eventualmente, per fini benefici. Una posizione che si troverà teorizzata nella formula del “capitalismo compassionevole” dell’èra di George W. Bush. Morley lamentava che la via esplorata a suo tempo in Europa da Lord Acton e che tanti frutti aveva prodotto in America avesse fatto marcia indietro verso il punto di partenza.

 

 

 

Egli, tuttavia, aveva il terrore dell’Europa, in cui l’ideologia comunista diffondeva un messaggio particolarmente accattivante fondato sul ruolo benefico dello stato, che, con il suo intervento giusto ed equilibrato, avrebbe diffuso un benessere stabile ed equamente distribuito al posto di un’economia capitalistica tesa ad arricchire i già ricchi e immiserire i già poveri. Questo messaggio, proveniente dall’Europa, e che aveva avuto un sostanziale riscontro nelle misure del New Deal, costituiva un pericolo mortale per le libertà americane. “Il più grande pericolo per la Repubblica – scriveva Morley in “The Power in the People” – sta nella tendenza crescente ad abbandonare la filosofia politica americana in favore di quella europea”. Il New Deal aveva la massima responsabilità in questo slittamento.

 

Decisiva la conclusione del suo discorso: “La lezione fondamentale delle rivoluzioni necessita di essere riconsiderata. È che la concentrazione del potere politico che punta a liberare gli uomini dall’oppressione termina quasi invariabilmente in un’oppressione ancor più grande di quella che è stata rimossa. La nostra rivoluzione (…) è un’eccezione che conferma la regola”. Tuttavia, il New Deal era l’anticamera dello “stato onnipotente”, secondo Morley. “Perciò – era questo il punto fermo da cui ripartire – la società americana si è sempre basata su un modo di condurre la propria esistenza fondata sulle convenzioni, perché la società sa che i controlli sono necessari ma è del tutto contraria alla loro applicazione da parte dello Stato”. E’, quindi, la società stessa che esercita una sorta di “supervisione” (il termine è di Morley) sull’individuo, riferendosi ai canoni stabiliti per tradizione dalle convenzioni sociali cui gli individui si adeguano spontaneamente.

 

Lo stato è l’interprete della “volontà generale”; dal New Deal in poi, scrive Morley in “Individuality and General Will” del 1958, questo concetto di Jean-Jacques Rousseau, che Morley definisce “tremendo”, è divenuto un punto fermo nelle concezioni statalistiche in voga in Europa e, purtroppo, anche in molta parte della società e della politica americane. Da questo punto di vista – Morley è drastico nel suo giudizio – “il fervore religioso, anti-cristiano del moderno comunismo deve la gran parte della sua forza di proselitismo più a Rousseau che a Marx”. Un fervore che, facendo leva sul concetto di “volontà generale”, annulla l’individualità, o almeno la riduce a mero passivo componente della stessa “volontà generale”, instaurando uno statalismo sempre più invasivo, che condurrà al totalitarismo: “Questo concetto totalitario di democrazia – afferma Morley nettamente – ha origine con Rousseau”.

 

Un concetto che ha una lunga storia: “Questa fu la posizione di Robespierre durante la rivoluzione francese – scrive Morley – come anche quella di Lenin quando il comunismo giunse al potere in Russia”. Ecco il vero pericolo che si profila per le libertà americane, dopo la “dittatura” del New Deal: “La minaccia fondamentale, da un punto di vista individualista, è la teoria della volontà generale. (…) Quando il potere politico è concentrato e senza limiti, come avviene con la teoria della volontà generale, la gente senza scrupoli è sempre pronta a scalare il potere”. Da qui nasce il pericolo per una società come quella americana, costruita sulla diffusione del potere politico, che promuove l’individuo. Il New Deal aveva introdotto nelle vene della società americana un virus contagioso. Occorreva liberarsene.

 

Gran parte degli scritti di Morley, in realtà, sono dedicati alla contestazione radicale delle concezioni statalistiche e, nello specifico, dello statalismo rooseveltiano e alla riproposizione della tradizione politica americana dei Padri Fondatori, gravemente oscurata dall’invasiva politica del New Deal. Il famoso discorso sulle “quattro libertà” di Roosevelt rappresentò un metodo sottile per convincere gli americani che lo stato si sarebbe preso cura di loro, approfittando di un frangente drammatico della storia americana. Mescolando astutamente la libertà di parola e la libertà di culto, già di per sé incluse nella Costituzione, con la libertà dal bisogno e con la libertà dalla paura, che sarebbero state garantite dallo Stato, Roosevelt aveva accreditato presso gli americani una “mostruosità prodotta da questa chiara mescolanza di concetti contraddittori”, scrive Morley in “Freedom and Federalism” del 1959, perché le seconde due “libertà” rappresentavano il lasciapassare per erodere alla base i principi liberali della tradizione politica americana.

 

Con quest’operazione, condotta abilmente tra il 1933 e il 1945, Roosevelt aveva alterato il significato stesso della democrazia americana, qual era scaturito dalla Dichiarazione d’Indipendenza e dalla Costituzione. Risultato: “La concezione del governo come agenzia di servizio per la prima volta s’impose nel pensiero americano. Come necessario corollario, i principi del federalismo furono gravemente subordinati a quelli dello stato di Servizio centralizzato”. In conclusione, “questo forte movimento verso il socialismo, comunque, non fu mai definito in questi termini”, ovviamente, ma continuò a essere definito democrazia, producendo gravi danni al sistema politico americano, perché, continua Morley, “il sistema federale degli Stati Uniti è incompatibile con la democrazia politica, costruita nei termini del rafforzamento a livello nazionale della volontà generale di Rousseau”.

 


Franklin Delano Roosevelt


 

In definitiva, si assistette a un potente processo di concentrazione del potere, mentre, dal punto di vista dell’economia, si procedette a esautorare progressivamente della loro libertà d’azione il mondo degli affari e delle banche, “mentre il potere della società, nel senso profondo del termine, fu strappato dalle realtà locali e concentrato in un nuovo network di agenzie poste in ordine alfabetico”. Era la fine del federalismo americano, afferma Morley, e dello stesso individualismo americano. Il New Deal aveva condotto l’America verso la negazione di se stessa, verso la negazione del “concetto fondamentale di questi Stati Uniti”, concetto per il quale “i diritti degli stati sono un dato vitale, mentre la democrazia politica decisamente no”.

 

Il problema della guerra era, per Morley, la massima espressione dello statalismo. Qui le posizioni di Morley combaciano completamente con quelle del libertarianism, movimento di cui fu espressione proprio in quegli anni Frank Chodorov. Tutte le guerre degli Stati Uniti dal 1815 in poi sono state combattute in nome della democrazia; ma “ognuna di esse ha contribuito a quella centralizzazione del potere che tende a distruggere quell’auto-governo locale che è ciò che la maggior parte degli americani hanno in mente quando parlano di democrazia”. L’isolazionismo è, dunque, il portato logico di tutto il processo di costruzione della democrazia americana fondata sul federalismo, cioè sui poteri locali, mentre la guerra è la massima espressione della centralizzazione del potere nelle mani di pochi.

 

L’estremo simbolo di tutto ciò è la concezione della possibilità della guerra atomica, una concezione che in sé è la negazione dei principi su cui sono stati fondati gli Stati Uniti. Morley richiama gli americani a un sussulto di libertà: “Non c’è alcun dubbio che la politica originaria degli Stati Uniti fosse strenuamente isolazionista”. E, allo stesso modo, coinvolgersi negli organismi internazionali significherebbe perdere ogni capacità di valutare separatamente gli eventi internazionali sulla base dei propri principi anche etici. In “The Foreign Policy of the United States”, del 1951, Morley è drastico: “Reputando che le Nazioni Unite fossero destinate a mantenere la pace perpetua, gli Stati Uniti commisero un’intera serie di errori colossali, in primo luogo Yalta”. E, in definitiva, aderire all’idea di utilizzare la bomba atomica è porsi alla stessa stregua dell’ideologia terroristica del comunismo, che sia sovietico o cinese, cioè distruggere con le proprie mani l’idea stessa di libertà che gli Stati Uniti hanno mostrato al mondo.