ANSA foto Fabio Muzzi

Il crollo del Monte dei Paschi e il costo a carico dei contribuenti

Ignazio Angeloni

Una discesa all’inferno durata 30 anni e il prezzo ancora  ignoto della rinascita. Gli errori fatti e quelli da non ripetere

Non sorprende né deve scandalizzare il fatto che una città storica che ha dato e continua a dare molto alla fama dell’Italia, raccolta attorno al campanile della più bella piazza del mondo, voglia avere istituzioni e risorse per assicurare prosperità economica alla propria gente. O che le organizzazioni sindacali pretendano che siano salvaguardati i lavoratori, specialmente dopo tanto impiego di denaro pubblico. Né meno sacrosanto è il fatto che una grande banca nazionale, che ha già i suoi problemi, messa alle strette dallo stato perché compri un’altra banca in perenne dissesto, dichiari di voler acquisire, semmai, solo le linee di attività che sono integrabili con le proprie. Non c’è niente di sbagliato in nessuna di queste cose. Il problema nasce dalla loro combinazione, dal cumulo di conflitti di interesse irrisolti e procrastinazioni travestite da soluzioni che va, da trent’anni a questa parte, sotto il nome di Monte dei Paschi di Siena.

 

Gambling for resurrection

Diciamo trent’anni perché fino agli anni ‘90 il coacervo di una banca che ha al suo interno un istituto di beneficenza municipale poteva anche reggere. L’instabilità della lira e del debito pubblico spingevano verso l’alto i tassi di interesse, mentre i costi sulla raccolta restavano bassi. Ampi margini sull’intermediazione tradizionale fruttavano una rendita che le banche italiane usavano in vari modi più o meno produttivi. Per il Monte, si è trattato soprattutto di politiche clientelari del personale (assunzioni, promozioni) a costi insostenibili, come testimoniano i dati dell’epoca. E di credito elargito con criteri analoghi. La trasformazione in Spa (1995) non ha risolto il problema, solo perpetuato il controllo politico sulla banca attraverso la Fondazione. Il fatto che segna il fallimento definitivo di quel modello di affari arriva a fine anni ‘90 con la stabilizzazione monetaria e l’euro. Da allora, e ancor più ora con le politiche monetarie ultra-espansive e i tassi negativi, i margini si sono ristretti e le banche hanno dovuto razionalizzarsi, innovare, diversificare le fonti di reddito. La ricetta di Mps nel periodo 1999-2007 si chiama invece, con una colorita espressione inglese, “gambling for resurrection”: cercare di sopravvivere giocando d’azzardo. La banca gioca con i derivati, prima in scala minore e poi, dal 2002, alla grande, per occultare o rimandare le perdite. Intraprende acquisizioni, anche qui in scala crescente, fino a quella esiziale di Antonveneta. Una discesa all’inferno che le autorità di vigilanza non ritennero di potere o di volere arrestare. E che non fu riconosciuta come tale neanche dall’establishment bancario, almeno a giudicare dal prestigio di cui Mps e i suoi vertici godevano in quel periodo presso quasi tutto il sistema del credito.

 

Già durante la crisi dell’euro appariva chiaro che le banche italiane, pur non esposte ai “titoli spazzatura” del settore immobiliare come quelle di altri paesi, avevano un problema di prestiti deteriorati, riflesso di governi societari e processi decisionali interni spesso inadeguati. Problemi che la crisi non creava ma amplificava. E che in cima a questi problemi c’erano Montepaschi e tre-quattro altri istituti. Ma nel 2011 l’Italia aveva un problema ancora più grave: la perdita di credibilità dell’intera politica di bilancio pubblico, che portava alla caduta del governo. In quel momento le banche non sembravano un problema urgente. E d’altra parte, proprio sulle banche l’Europa nel 2012 estraeva un asso dalla manica: l’unione bancaria. Alla nuova vigilanza Bce, alla sua indipendenza e alla forza del suo mandato ci si è affidati, in quella fase, per gestire i problemi del settore bancario. Le dichiarazioni dei leader europei e della stessa banca centrale di allora non lasciano dubbi sul fatto che il risanamento bancario sarebbe stato attuato col massimo rigore, anche facendo uscire alcune banche dal mercato.

 

Il ruolo della Bce

A sette anni dall’avvio della vigilanza Bce bisogna constatare che, almeno nei confronti di Mps (ma non solo), quella cura non ha funzionato, a dispetto di alcuni passi iniziali incoraggianti. La “due diligence” della Bce (2013-14) evidenziava un deficit di capitale di oltre 2 miliardi di euro. L’aspettativa di un nuovo corso della vigilanza sollecitava cambiamenti ai vertici e portava alla maxi ricapitalizzazione del 2014. I risultati operativi miglioravano e il peso dei costi sembrava tornare sotto controllo. Ma quella fase è durata poco; dopo il 2015 l’azione della vigilanza Bce si è indebolita, contro un’opposizione sempre più decisa da parte nazionale e dalle stesse autorità europee. La Commissione giudicò eccessivi I requisiti imposti dalla Bce; il Parlamento europeo mise poi in dubbio la legittimità dell’azione contro le sofferenze e crediti deteriorati. Una legislazione europea sulle crisi bancarie inadeguata (troppo restrittiva per certi versi e permissiva per altri) fece il resto. In quel difficile contesto, la stessa Bce esitò, e alcuni problemi restarono irrisolti.

 

Nel 2016, gli stress test evidenziano nuovamente una grave carenza di capitale per l’istituto senese. Era in segnale che la terapia non stava funzionando. Ed era l’occasione per affrontare il problema, lungo tre linee: separando la gestione della banca dagli interessi locali; ripulendo il bilancio con una valutazione granulare degli attivi (Asset quality review, o Aqr); ristrutturando i processi interni per portare i costi in linea con i migliori standard. Una strategia che, se necessario anche con aiuti di stato, avrebbe portato poi all’acquisizione della banca o di parti di essa. Purtroppo l’opposizione nazionale e la stessa legge europea non consentirono questa strategia. Si arrivò al paradosso di penalizzare i creditori privati con il meccanismo del “burden sharing” (salvo compenso), ma poi concedere una ricapitalizzazione “precauzionale” con fondi pubblici senza risanare a fondo il bilancio della banca (cioè, senza Aqr). Ricetta sicura per le perdite a carico dei contribuenti che sarebbero maturate negli anni a venire.

 

I punti delicati per il governo

Al ministro Daniele Franco, che oggi deve gestire la situazione senza averne vissuto il pregresso né avervi personalmente contribuito, spetta comprensione e solidarietà. Al netto di quattro anni di ritardi e di vari miliardi di perdite a carico del contribuente, la situazione oggi è largamente simile a quella del 2017: Montepaschi ha un modello di affari e una struttura dei costi non compatibili col mercato. La differenza è che ora vi è consapevolezza di questo fatto ed esiste un acquirente designato, almeno per una parte del bilancio e a certe condizioni. L’altra differenza è che la banca è stata ripulita di una parte dei crediti inesigibili o dubbi, ceduti alla società pubblica Amco con un onere per il contribuente ignoto (su questo punto, rilevante non solo per Mps, si rimanda al post-scriptum). Il ministro verosimilmente desidera che l’operazione vada in porto, ma anche che non sia vista dai posteri come un’altra occasione mancata o un nuovo spreco di denaro pubblico. Con questa finalità in mente, ci sono alcuni punti della sua recente “informativa” parlamentare (4 agosto) sui è utile riflettere.

 

Il primo è il rilievo attribuito al fatto che il marchio Mps possiede valore commerciale (non solo storico) da preservare e valorizzare come “parte del mondo finanziario del futuro”.  A giudicare dai tentativi non riusciti di trovare un acquirente negli anni passati, non sembra che questo giudizio sia confermato dal mercato, né sembrerebbe saggio che il governo ne fosse condizionato mentre fa le prossime scelte. Ci sono vari modi in cui il marchio Mps può essere preservato e valorizzato in campi diversi da quello bancario, con beneficio della collettività locale e senza gravare sulla componente bancaria che, se tutto va bene, sarà trasferita a Unicredit. Non è necessario ricordare al ministro che stessa Unicredit fa parte del “mondo finanziario del futuro” di cui egli, quale garante della stabilità finanziaria, è responsabile.

 

Il secondo punto è l’accento sulla finalità di sostenere il territorio e il tessuto sociale di Siena e della Toscana. Non perché questa finalità non sia importante: lo è. Ma il modo in cui essa è presentata, in stretto raccordo con la valorizzazione “commerciale” del marchio, lascia intendere che preservare il modello commerciale preesistente sia il modo migliore di fornire quel sostegno. Al contrario, il modo migliore è quello di integrare al meglio le linee di attività della banca senese con quelle dell’acquirente, che ha già una lunga esperienza nell’integrare soggetti bancari più piccoli.

 

Altro p,unto delicato è la condizione, enunciata da Unicredit nelle sue comunicazioni, che l’operazione realizzi entro un biennio un aumento del rendimento per azione, una volta tenuto conto delle sinergie derivanti dalla fusione. Un’indicazione tecnica solo apparentemente innocua. La vigilanza Bce dovrà approvare l’operazione, e con essa il punto più delicato, i requisiti di capitale della nuova entità. Essi dipenderanno in parte proprio dalle “sinergie” dell’operazione, ovvero dalla stima di quanto la combinazione delle diverse entità determina il rischio complessivo del nuovo soggetto bancario. Unicredit è già oggi una banca globalmente sistemica, e aumenterà significativamente di dimensione in un mercato ristretto e non facile come quello italiano. La valutazione delle sinergie, sempre difficile, sarà cruciale in questo caso. La vigilanza Bce potrebbe trovarsi nella difficile posizione di “ago della bilancia”, decidendo di fatto l’esito dell’operazione bilanciando le pressioni in campo con i propri fini istituzionali a guardia della stabilità del sistema.

 

Post Scriptum. Si è tralasciato ogni riferimento ai costi per il contribuente. Il ministro ha osservato giustamente che ogni valutazione seria è prematura. Fra i calcoli meno seri che è possibile abbozzare sui dati pubblicamente disponibili, nessuno va sotto i 10 miliardi. Fra gli elementi aleatori vi è il risultato ottenibile dalla gestione dei crediti deteriorati che verranno trasferiti d Amco (oltre a quelli, sempre di Mps, già trasferiti). A titolo di cronaca vale la pena ricordare il precedente dei crediti delle due banche venete acquisite da Banca Intesa, trasferiti alla Sga – la società precedente ad Amco. Il disegno di legge del 2017, recante disposizioni per la liquidazione delle due banche, contiene stime dei valori di realizzo di quei crediti pari al 64 per cento dopo 4 anni, e al 100 per cento dopo 20 anni. Banca d’Italia, nel richiamare queste stime nel commento pubblicato allora sul proprio sito, pone l’accento sull’“approccio prudente” che avrebbe consentito a Sga di ottenere buoni realizzi, rispetto alle valutazioni troppo basse del mercato. Dopo 4 anni, l’ultimo rapporto annuale di Amco porta ancora quei crediti a bilancio (più altri sempre delle banche venete che Intesa ha deciso di cedere successivamente in esecuzione degli accordi), attribuendovi un valore attuale del 27 per cento del nominale. Tale può essere la differenza fra stime iniziali poco prudenti e la realtà dei fatti. Speriamo che quell’esempio non si ripeta.

 

Ignazio Angeloni
Harvard Kennedy School
Goethe University Frankfurt

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