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l'analisi

Pochi lavori con il Recovery. Da dove nasce la delusione (e che fare)

Andrea Garnero

Investimenti per 230 miliardi e "solo" 750mila occupati in sei anni? Perché l'impostazione del Piano di Ripresa e Resilienza evidenzia le debolezze strutturali del mercato del lavoro italiano

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza italiano ha un problema con il lavoro? La domanda l’ha sollevata il direttore Claudio Cerasa sul Foglio di sabato scorso ed è effettivamente una domanda pertinente. 230 miliardi di investimenti (o per lo meno 182 in più rispetto ai previsti), riforme ambiziose e comprensive e, parrebbe, “solo” 750.000 occupati in più in sei anni? La previsione forse riflette la prudenza dei tecnici del Ministero della Finanze. Anche il Financial Times scriveva lo scorso lunedì che l’impatto di Next Generation EU sarà superiore a quanto previsto dai governi europei. 

Dopotutto è difficile stimare con precisione l’impatto di una tale somma di denaro e soprattutto di riforme che avranno soprattutto un impatto indiretto, tagliando le procedure, i tempi di autorizzazione e dei processi. Inoltre, è difficile stimare i fondi privati che in aggiunta a quelli pubblici saranno mobilitati. Con i pochi dettagli disponibili nei testi inviati a Bruxelles non è possibile al momento fare una valutazione comparativa approfondita tra i diversi paesi europei. 
 

Le previsioni italiane, però, appaiono nella forchetta bassa tra quelle che i vari paesi hanno indicato nei testi dei vari piani nazionali. E in ogni caso restano ben lontane dal colmare il divario di tasso di occupazione rispetto alla media europea (62,9 per cento in Italia rispetto a 72,6 per cento in Unione europea nell’ultimo trimestre 2020). Al di là dei numeri e dei tecnicismi, resta la domanda di fondo: questa ripresa avrà il lavoro al centro oppure, ancora una volta, avremo una ripresa senza lavoro, una jobless recovery come si dice in gergo? Ci sono ragioni di pensare che al netto della prudenza e di possibili limiti dei modelli macroeconomici utilizzati per queste stime, il Piano di Ripresa e Resilienza non sarà così favorevole al lavoro come si sarebbe potuto sperare vista l’entità di investimenti in campo. Questo potrebbe essere dovuto, in parte, all’impostazione del Piano stesso, in parte alle debolezze strutturali del mercato del lavoro italiano. In particolare, il Pnrr mette l’accento sulla transizione ecologica e digitale, come da richiesta europea. Ma l’impatto occupazionale di queste misure rischia di deludere, non perché le tecnologie digitali o verdi “rubino” lavoro agli italiani, ma semplicemente perché queste tecnologie non sono prodotte in Italia. 

Per creare lavoro duraturo e di qualità, infatti, non basta promuovere il consumo di certi beni o servizi se l’Italia non li produce o non ha particolari competenze in materia. Infatti, sempre secondo le stime del Mef contenute nel documento inviato a Bruxelles, si prevede un forte aumento delle importazioni di qui al 2026 e addirittura un leggero calo delle esportazioni nei primi tre anni. Non deve stupire visto che l’Italia non è un paese leader nella produzione di auto elettriche, pannelli fotovoltaici, pale eoliche o tecnologie elettroniche e informatiche e non lo diventerà nel giro di due o tre anni. Inoltre, queste transizioni non avverranno senza costi, come lo stesso ministro Cingolani ha sottolineato. 

La strada verso un’Italia più verde e più digitale comporterà la distruzione di posti di lavoro nei settori più inquinanti e meno digitali per favorire la creazione di nuovi posti nei settori che il Piano promuove. Ma se anche il saldo netto fosse zero o positivo, il percorso sarà accidentato per alcune imprese e alcuni lavoratori. Non tutte le imprese, infatti, riusciranno ad adeguarsi. Ai lavoratori sarà richiesto di cambiare alcune delle mansioni che svolgono, se non proprio cambiare lavoro. Il costo sociale della transizione è sottolineato in tutti i documenti europei, anche come dimensione chiave da tenere a mente perché la transizione avvenga (altrimenti, a un certo punto, potrebbe prevalere lo spirito di conservazione) e al Parlamento europeo si stanno chiudendo i lavori per il Just Transition Fund, il fondo per una giusta transizione, per accompagnare quelle regioni che rischiano di rimanere indietro. Nel piano italiano, però, la missione numero 5 dedicata all’inclusione e al sociale, in cui sono inserite le misure sul lavoro, fa storia a sé rispetto alle missioni 1, 2 e 3 dedicate al verde e al digitale. Le politiche attive sono relegate ad alcuni paragrafi generali mentre dovrebbero essere considerate tra le riforme abilitanti dell’intero Pnrr, al pari livello delle semplificazioni e della concorrenza

 

Senza politiche attive funzionanti (più che una riforma, è necessario renderle operative, colmando l’enorme divario tra le regioni), come accompagneremo i lavoratori nella transizione? Chi permetterà loro di fare quel bilancio di competenze che serve per capire cosa manca per trovare lavoro nei settori che crescono? Chi li aiuterà a riscrivere cv e lettera di motivazione? Chi li aiuterà a districarsi tra le offerte di lavoro? Maggiori dettagli potrebbero essere contenuti nelle schede che accompagnano il testo di presentazione generale, che, però, al momento non sono ancora disponibili pubblicamente. Nel testo generale, però, queste considerazioni mancano ed è un problema per la riuscita stessa del piano.

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